a cura di Claudio Melacarne
La conoscenza pratica è interpretabile come il know how e l’insieme di skills utilizzate implicitamente dalle persone per dare forma, controllare o trasformare “il fertile disordine della pratica” (Schön, 2006). La conoscenza pratica è composta dai sistemi di significato e dagli schemi di azione attraverso i quali le persone danno senso alla propria esperienza e risolvono spesso inconsapevolmente il groviglio di problemi contraddittori in cui sono immersi quotidianamente.
Un primo tratto che distingue la conoscenza pratica da quella teorica, dalle speculazioni astratte o dalla conoscenza scientifica, è rintracciabile nel fatto che essa è implicita nell’azione (Schön, 2006), è un conoscere tacito (Polanyi, 1979). Questo significa che quando dei soggetti sono impegnati in un’attività, quando tentano di risolvere problemi inediti o svolgono un compito, pur dimostrando di possedere un’expertice, difficilmente riescono a descriverla, a formalizzare il come e il perché prendono determinate decisioni. Insegnare, fare il genitore, progettare un intervento formativo, sono tutte esperienze che incorporano un ‘saper fare’ intuitivo, creativo e implicito non immediatamente esplicitabile. Sappiamo fare molte più cose di quante ne sappiamo dire (Mezirow, Taylor, 2011). In questo senso, il ‘saper fare’ non è immediatamente formalizzato in modelli o procedure, non è sistematizzato o esplicitabile come una teoria scientifica. È il frutto dei processi riflessivi attraverso i quali le persone o le comunità, nei contesti di vita e di lavoro reali, negoziano e creano la miglior strategia per risolvere i problemi che incontrano (Fabbri, 2007). Solo dopo che l’azione è terminata, i soggetti riescono a comprendere il come e il perché hanno fatto determinate scelte, hanno portato avanti certi impegni o hanno affrontato i problemi da un particolare punto di vista (Cranton, 1997).
Per esempio, le competenze che i professionisti mettono in campo nel luogo di lavoro, non corrispondono alla loro capacità di descriverle. La conoscenza che il professionista sviluppa nel corso dell’azione, la conoscenza pratica, rimane in gran parte implicita e incarnata nel suo fare quotidiano.
All’interno degli studi sulle pratiche di apprendimento nei contesti informali della vita quotidiana, Lave utilizza le espressioni just plain folk e local theories (Lave, 1988) per indicare la generatività dell’esperienza di tutti i giorni in cui le “persone comuni apprendono metaforicamente così come un apprendista impara un mestiere all’interno di una bottega artigiana” (Brown, Collins, Duguid, 1989, p. 37). Il sapere pratico è collocabile a un livello diverso dal sapere scientifico, ma allo stesso modo esso esprime una sua forma di complessità e legittimità dovuta alla capacità di queste local theories di supportare e orientare le azioni delle persone anche quando il prendere decisioni si configura come un evento contraddittorio e incerto.
La conoscenza pratica è interpretabile quindi come l’insieme di rappresentazioni, di schemi e di modalità di azione capaci di sostenere le persone nel difficile lavoro di comprensione, gestione e riduzione della contraddittoria e incerta esperienza di vita e di lavoro.
Inoltre, recenti prospettive di indagine mettono in evidenza quanto la conoscenza pratica è contestuale, relazionale e sociale (Wenger, 2006). Più che enfatizzare la capacità delle persone di apprendere riflettendo sull’esperienza, si sottolinea in questo caso quanto la conoscenza pratica è il frutto di processi più o meno impliciti di scambio e di costruzione congiunta di saperi all’interno di specifici contesti d’azione come la famiglia, il gruppo di pari, il lavoro, il tempo libero (Rogoff, 1984). La conoscenza pratica è quindi una conoscenza relazionale, prodotta nell’interazione più o meno sistematica tra persone e, tra persone e artefatti (Engeström, Miettinen, Punamäki, 1999). In questa prospettiva non è patrimonio del singolo perché risiede più che nella ‘testa di un soggetto’, nell’attività, nell’impegno, nei repertori di azione condivisi all’interno di una comunità (Raelin, 2000). La conoscenza pratica è quindi localizzata e fortemente radicata nel contesto nel quale si sviluppa e nelle azioni in cui si materializza. Essa è difficilmente trasferibile e trasformabile perché non si organizza secondo logiche sistematiche, non segue strade razionali, non si esprime in termini simbolici. Essa diventa il patrimonio conoscitivo di una comunità, incarna la sua storia di apprendimenti e con il tempo diventa il modo consuetudinario con cui vengono affrontati i problemi.
Per questi motivi è sia la linfa vitale delle attività umane, in quanto alimenta il fare intuitivo e creativo (Rossi, 2009), sia un ostacolo all’apprendimento, in quanto si cristallizza e diventa routine. In contesti dinamici e incerti come quelli caratterizzanti i contesti di vita e di lavoro attuali, il rischio per le persone e i professionisti è di affrontare le sfide emergenti facendo uso di vecchi schemi e di repertori di azione consolidati, piuttosto che impegnarsi a costruire nuove local theories. In questo senso, insegnare, fare il genitore, svolgere un’attività formativa con un gruppo di adulti, sono tutte esperienze che producono dei saperi che possono diventare il modo routinario con cui si risolvono i problemi. Conseguentemente, il lavoro educativo e formativo si configura sempre più come attività di sostegno ai soggetti e alle comunità ad andare oltre i processi naturali di costruzione di conoscenze e passare da apprendimenti “naturali e organici” ad apprendimenti in parte “progettati” (Marsick, Davis-Manigaulte, 2011, p. 12). Le persone e le comunità hanno la necessità di trovare spazi formativi adeguati, setting di sviluppo, traiettorie innovative dove possano scegliere se e come trasformare i modi consuetudinari con cui pensano e agiscono sul mondo, dove poter trasformare la propria conoscenza pratica.
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