Razionalità tecnica

a cura di Pascal Perillo

Radicando il “pensiero riflessivo” nell’indagine John Dewey offre a Donald Alan Schön un efficace modello di interpretazione dell’agire professionale, consentendogli di proporre una nuova epistemologia della pratica professionale. Il primo passo fatto da Schön nel tentativo di delineare questa nuova epistemologia è la messa in discussione del modello di Razionalità Tecnica (R.T.) di origini positiviste che ha rappresentato il riferimento epistemologico dominante fino agli anni Sessanta del XX secolo, evidenziandone i limiti rispetto all’affermarsi incalzante, nei contesti professionali, di complessità e problematicità delle esperienze che in essi vengono a definirsi in termini di instabilità, incertezza, precarietà e flessibilità.

Nel modello della R.T. si prevede un ruolo meramente esecutivo del professionista ed una gerarchizzazione delle professioni in base alla «maggiore o minore aderenza procedurale a protocolli operativi scientificamente validati». Secondo il paradigma scientifico positivista la tipologia di problemi che il professionista affronta è determinata da standard procedurali legati a precisi profili professionali. L’adozione di una R.T. induce a ritenere l’attività professionale come soluzione strumentale di un problema attraverso la rigorosa applicazione di teorie e tecniche a base scientifica: «dal punto di vista della Razionalità Tecnica, la pratica professionale è un processo di soluzione dei problemi. Problemi di scelta o decisionali sono risolti mediante la selezione, fra i mezzi disponibili, di quello che meglio si adatta a determinati fini». Ciò significa ritenere che, nello svolgimento dell’attività professionale, il professionista è orientato da fini predefiniti in rapporto ai quali scegliere i mezzi adeguati, si riferisce a teorie rigidamente organizzate e strutturate per interpretare la prassi ed intervenire in essa e seleziona conoscenze organizzate utilizzandole nel corso dell’azione. «Il modello della “razionalità tecnica” delineava un paradigma di pratica professionale rigorosamente fondata su un modello applicativo, ai contesti operativi, di forme di sapere costruite sulla base di protocolli di ricerca standardizzati, ai quali i diversi casi e le diverse situazioni dovevano in qualche modo poter corrispondere per essere gestiti in modo efficace».

I limiti di una tale razionalità sono evidenti, soprattuto se ci riferiamo a contesti lavorativi altamente problematici, come ad esempio quello educativo, in cui non esiste una ‘definibilità’ univoca né dei fini che orientano l’azione né della natura e della funzionalità della professionalità stessa. La difficoltà di molti professionisti ad organizzare la propria attività lavorativa in armonia con l’aspetto mutevole delle situazioni dimostra che, nella pratica lavorativa, esistono problemi indeterminati e resistenti a soluzioni di tipo tecnico. Questi sono molto spesso considerati di poca importanza dai professionisti, soprattutto quando essi si affidano ad approcci di tipo non problematico, frutto di una fiducia miope in una R.T. che sembra legittimare l’expertise. Se questo è vero, come è vero, per il mondo delle professioni in generale, lo è, in particolare, per il mondo delle professioni educative che si caratterizzano come ambiti lavorativi pluriarticolati e differenziati, variabili, imprevedibili, incompiuti e problematici.

Ogni professionista contribuisce ad impostare e definire attivamente i problemi da affrontare, determinando quindi anche i fini verso cui indirizzare le azioni, le coordinate di applicabilità dei mezzi e le condizioni di possibilità per la costruzione di nuovi mezzi. Vale a dire che procedere secondo una R.T. significa non riconoscere l’importanza della «impostazione del problema», il processo attraverso il quale il professionista definisce la decisione da prendere, i fini da conseguire e i mezzi da scegliere: nelle situazioni reali «i problemi non si presentano al professionista come dati. Essi devono essere costruiti a partire dai materiali di situazioni problematiche che sono sconcertanti, turbative, incerte. Per trasformare una situazione problematica in un problema, il professionista deve svolgere un certo tipo di lavoro». Tale lavoro consiste nel comprendere la situazione incerta, per la comprensione e la risoluzione della quale non sempre basta affidarsi a procedure di spiegazione e intervento fornite dalla razionalità tecnica. Ne deriva una considerazione dinamica e articolata della struttura epistemologica dell’agire professionale nel quale il rapporto mezzi-fini è frutto di una processualità interattiva nella quale il professionista ‘designa’ gli oggetti di cui si dovrà occupare e ‘struttura’ i contesti all’interno dei quali opererà: «è [quindi] il lavoro di designazione e di strutturazione che crea le condizioni necessarie all’esercizio dell’expertise tecnica».

Di qui il modello di razionalità riflessiva applicabile ad una pluralità di ambiti professionali: si tratta di un modello che si fonda sul riconoscimento della razionalità euristica e riflessiva implicata dalla teoria dell’indagine di Dewey e della sua trasferibilità a diversi ambiti di pratica e azione. Quando Schön parla di “razionalità riflessiva” non intende con essa soppiantare la R.T., bensì vuole sottolineare la necessità che il professionista eserciti la propria competenza tecnica accompagnandola ad una costante “meta-competenza riflessiva”. La razionalità orienta l’indagine in maniera riflessiva in quanto è creativa (nel seno costruttivo del termine), euristica (esplora le situazioni problematiche), problematica (mette in discussione, apre questioni) e contestuale (tiene conto dell’unicità delle situazioni esperienziali); in questo senso essa consente di costruire conoscenza nel corso dell’azione e di riflettere su questa conoscenza.

Questa “svolta riflessiva” mette in primo piano la struttura cognitiva che sostanzia la pratica professionale: se per la R.T. teoria e prassi possono essere scisse, per la razionalità riflessiva teoria e prassi sono interrelate, per cui conoscenza e azione sono legate in maniera “transattiva”; l’operazionalità di una teoria consiste nella prassi che alla teoria conferisce continui elementi di sussistenza e di problematicità; la conoscenza, pertanto, non è da considerarsi scissa dall’agire in quanto evolve nel corso dell’azione e nell’azione è possibile individuare un ‘conoscere implicito’ che determina e orienta le pratiche professionali.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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D.A. Schön (1987), Formare il professionista riflessivo, cit., p. 11.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 69.
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