Pratica

a cura di Stefano Oliverio

La centralità della nozione di ‘pratica’ negli studi sulla formazione professionale dell’ultimo trentennio è legata essenzialmente all’opera di Etienne Wenger (1998) e di Donald A. Schön (1987). Per Wenger “[i]l concetto di pratica connota il fare, ma non solo il fare in sé e per sé. È il fare in un contesto storico e sociale che dà struttura e significato alla nostra attività. In questo senso, la pratica è sempre pratica sociale”. Di questa definizione sono da enucleare alcuni punti:

  1. Pratica non è considerata in antitesi a teoria. Non è la dimensione del mero fare in quanto distinta da (e opposta a) quella del contemplare, secondo una delle più consolidate dicotomie occidentali. La pratica comprende sia le dimensioni ‘fattive’ sia quelle conoscitive dell’umano essere del mondo, sia l’agire sia il conoscere (e quest’ultimo è da prendersi solo come un tipo specifico di attività e non come una sfera altra, in sé segregata).
  2. Il ‘fare’ nel senso ampio appena detto (comprendente quindi anche il conoscere, il pensare etc.) non è considerato in astratto, ma in contesti storico-socialmente determinati. Il termine ‘pratica’ non è quindi una nozione astratta o trascendentale, ma qualcosa che accade in un tempo e uno spazio, è legata a certe relazioni inter-umane, a specifici rapporti sociali. Prescindere da questo ‘radicamento’ storico, astrarre dalle relazioni contestuali, significa precludersi l’accesso alla comprensione di una pratica.
  3. Vi è un nesso fondamentale tra la nozione di pratica e quella di significato. Come Wenger precisa, “[l]a pratica è, anzitutto e soprattutto, un processo mediante il quale possiamo dare significato al mondo e al rapporto che intratteniamo con esso”.

La pratica così intesa abbraccia una serie di aspetti che l’epistemologia spettatoriale, per adoperare un’espressione di sapore deweyano, tende, invece, a tenere separati: le dimensioni esplicite e quelle implicite, il verbalizzabile e il non verbalizzabile, “il linguaggio, gli strumenti, i documenti, le immagini, i simboli, i ruoli ben definiti, i criteri specifici, le procedure codificate, le normative interne e i contratti che le varie pratiche rendono espliciti per tutta una serie di finalità” da una parte e, dall’altra, “le relazioni implicite, le convenzioni tacite, le allusioni sottili, le regole empiriche inespresse […]”. Queste osservazioni servono a Wenger per ribadire come “[i]l processo di coinvolgimento nella pratica riguarda sempre la persona nella sua totalità, in quanto soggetto che agisce e conosce nello stesso tempo”.

Benché Wenger non abbia in Dewey un suo riferimento prevalente, anche nel suo dispositivo argomentativo ritorna, quindi, il nesso intimo di conoscenza e azione (non scindibili in due domini separati da un solco epistemologico insuperabile); l’immersione del soggetto (preso nella sua integralità) nella pratica comporta, inoltre, una dinamica transazionale (cfr. la voce ‘Transazione’ nel presente lessico) aliena da ogni forma di oggettivismo.

Siffatti caratteri gettano un ponte fra le considerazioni di Wenger e quelle (invero a essere precedenti di 10 anni) di Donald Schön. Anzitutto si deve prendere in esame una nota metafora da lui adoperata: nella pratica professionale si incontra spesso, accanto a “un terreno stabile, a livello elevato”,  una “palude”, “zone indeterminate, magmatiche”. È il modo in cui in cui Schön veicola il senso che la pratica professionale non consta di soli problemi determinati, definiti, facilmente perimetrabili, ma anche (e per lo più) di aree confuse, conflittuali. Benché questa osservazione non sia sovrapponibile alla notazione di Wenger circa la coesistenza di dimensioni tacite e dimensioni esplicite, ambedue gli autori invitano a leggere la pratica come una totalità onniabbracciante in cui si incontrano, mescolano e condizionano a vicenda aspetti riconducibili a e gestibili con una razionalità cartesiana, tecnica, definitoria, legata a “oggetti del pensiero” (nel senso in cui Dewey distingue oggetti e situazioni: cfr. la voce ‘Situazione’ del presente lessico), e aspetti – prevalenti – che eccedono i dettami della razionalità tecnica (cfr. la voce corrispondente nel presente lessico), ma che non per questo non sono suscettibili di trattamento rigoroso.

Vi è un ulteriore versante della nozione di pratica in Schön che è accostabile all’impianto di Wenger. Schön sottolinea come “[u]na pratica professionale è l’attività di una comunità di professionisti che condividono, secondo le parole di John Dewey, le tradizioni di un mestiere”. In particolare essi condividono:

  1. “mezzi, linguaggi, strumenti particolari”;
  2. “particolari tipologie di contesti istituzionali” in cui operano;
  3. la strutturazione delle pratiche “in termini di particolari unità di attività” (lezioni, visite ai pazienti etc.);
  4. “l’insieme dei valori, delle prestazioni e delle norme in base alle quali attribuiscono un senso alle situazioni della pratica, formulano obiettivi e direzioni per l’azione e determinano che cosa rende una condotta professionale accettabile”.

Ne deriva che “[i]l conoscere nel corso dell’azione di un professionista è collocato in un contesto socialmente e istituzionalmente strutturato condiviso da una comunità di professionisti”. Anche in Schön, dunque, ogni pratica è pratica sociale e investe le dimensioni ‘fattive’ e conoscitive del professionista, considerate nella loro inscindibile unità, che Schön si sforza di restituire con l’espressione knowing-in-action.


 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

E. Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano: Raffaello Cortina, 2006, p. 59 [ed. orig. 1998].
Ivi, p. 63.
J. Dewey, The Quest for Certainty, in The Later Works of John Dewey, 1925-1953, vol. 4, edited by Jo Ann Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1984.
E. Wenger, op. cit., p. 59.
Ibidem.
Ivi, p. 60.
D.A. Schön, Formare il professionista riflessivo. Per una nuova prospettiva della formazione e dell’apprendimento nelle professioni, edizione italiana a cura di Maura Striano, Milano: FrancoAngeli, 2006, p. 31 [ed. orig. 1987].
P. Orefice, Pedagogia scientifica, Roma: Editori Riuniti, 2009.
D. A. Schön, op. cit., p. 66.
Ibidem.
Ibidem.