Ontologia naturale

a cura di Silvia Fioretti

L’ontologia naturale riguarda le cose che ci sono. Le cose e gli stati di tali cose sono indipendenti dal processo conoscitivo, la struttura della natura risulta essere completamente svincolata dalle idee o dalle interpretazioni dell’uomo. Ferraris, attraverso ‘l’esperimento della ciabatta’, sostiene che quanto sappiamo sul mondo non può cambiare quello che c’è nel mondo. L’esperimento descrive, considerando il possesso (o mancato possesso) di schemi concettuali e neuroni, l’incontro che hanno con una ciabatta un uomo, un cane, un verme, dell’edera e un’altra ciabatta. In tutte queste situazioni, anche quando due ciabatte si urtano, si realizza un incontro tra un soggetto e una ciabatta ma, a livello ontologico, non ci sono cambiamenti. Con questo esperimento Ferraris sottolinea l’inemendabilità dell’ontologia ribadendo che quello che c’è è indipendente dalle nostre opinioni e non si può far scomparire. La ciabatta esiste indipendentemente dal soggetto e dai suoi organi di senso.

Esperimento della ciabatta

[…] Lo si può illustrare con quello che ho chiamato “esperimento della ciabatta”, e che riporto nei termini in cui l’ho presentato dieci anni fa come argomento anticostruzionistico.

1. Uomini. Prendiamo un uomo che guarda un tappeto con sopra una ciabatta; chiede a un altro di passargli la ciabatta, e l’altro, di solito, lo fa senza incontrare particolari difficoltà. Banale fenomeno di interazione, che però mostra come, se davvero il mondo esterno dipendesse anche solo un poco, non dico dalle interpretazioni e dagli schemi concettuali, ma dai neuroni, la circostanza che i due non possiedano gli stessi neuroni dovrebbe vanificare la condivisione della ciabatta. Si può obiettare che i neuroni non devono risultare proprio identici per numero, posizioni o connessioni; il che, però, non solo indebolisce la tesi, ma contraddice una evidenza difficilmente confutabile: che differenze tra esperienze passate, cultura, conformazioni e dotazioni cerebrali, possano comportare divergenze significative a un certo livello (lo spirito procede dal padre e dal figlio o solo dal padre? Che cosa intendiamo con “libertà”?), è banale, sono le dispute tra le opinioni. Ma la ciabatta sul tappeto è un’altra cosa: è esterna e separata rispetto a noi e alle nostre opinioni, ed è perciò dotata di un esistenza qualitativamente diversa da quella che si affronta, poniamo, nel ragionare sullo status di questioni come l’accanimento terapeutico o la guerra preventiva. In altri termini, la sfera dei fatti non risulta poi così inestricabilmente intrecciata con quella delle interpretazioni. Solo quando è in gioco un elemento normativo, il dialogo può essere importante: per stabilire se qualcosa è legittimo o meno, è meglio che senta un po’ in giro come la si pensa e mi metta a discutere; ma per stabilire se la ciabatta è sul tappeto guardo, tocco o comunque discutere non mi serve granché.

2. Cani. Adesso prendiamo un cane, che sia dato addestrato. Gli si dice “Portami la ciabatta”. E, di nuovo, lo fa senza incontrare alcuna difficoltà, esattamente come l’uomo di cui sopra, benché le differenze tra il mio e il suo cervello siano enormi, e la sua comprensione di “Portami la ciabatta” non paia assimilabile a quella di un uomo: il cane non si chiederebbe se sto davvero chiedendogli di portarmi la ciabatta oppure se citi la frase. O se la usi in senso ironico; mentre è probabile che almeno alcuni uomini lo farebbero.

3. Vermi. Ora prendiamo un verme. Non ha cervello né orecchie; è privo di occhi, è ben più piccolo della ciabatta; possiede solamente il tatto, qualunque cosa voglia esattamente significare un senso così oscuro. Dunque non possiamo dirgli “Portami la ciabatta”. Però, strisciando sul tappeto, se incontra la ciabatta, può scegliere fra due strategie: o le gira intorno, o le sale sopra. In ambo i casi, ha incontrato la ciabatta, anche se non proprio come la incontro io.

4. Edera. Poi prendiamo un’edera. Non possiede occhi, non ha proprio niente, però si arrampica (così ci esprimiamo noi trattandola da animale e attribuendole una strategia intenzionale) sui muri come se li vedesse; oppure si scosta lentamente se trova fonti di calore che la infastidiscono. L’edera o aggirerà la ciabatta, oppure ci salirà sopra, non troppo diversamente da come farebbe un uomo di fronte a un ostacolo di taglia più grande, tuttavia senza occhi o schemi concettuali.

5. Ciabatta. Per finire, prendiamo una ciabatta. È ancora più insensibile dell’edera. Però se la tiriamo sull’altra ciabatta, la incontra, pressappoco come accade all’edera, al verme, al cane, all’uomo. Dunque non si capisce proprio in che senso anche la tesi più ragionevole e minimalista circa l’intervento del percipiente sul percepito possa avanzare qualche pretesa ontologica; figuriamoci poi le altre. Anche perché si potrebbe benissimo non prendere un’altra ciabatta, ma semplicemente immaginare che la prima ciabatta sia lì, in assenza di qualsiasi osservatore animale, o senza un vegetale o un’altra ciabatta che interagiscano con lei. Forse che allora non ci sarebbe una ciabatta sul tappeto? Se la ciabatta c’è davvero, allora deve esserci anche senza che nessuno la veda, come è logicamente implicato dalla frase “C’è una ciabatta”, altrimenti uno potrebbe dire: “Mi pare che ci sia una ciabatta”, o, anche più correttamente: “Ho in me la rappresentazione di una ciabatta”, quando non addirittura: “Ho l’impressione di avere in me la rappresentazione di una ciabatta”. Si consideri che far dipendere l’esistenza delle cose dalle risorse dei miei organo di senso non è di per sé nulla di diverso dal farle dipendere dalla mia immaginazione, e che quando sostengo che una ciabatta c’è solo perché la vedo sto in realtà confessando di avere un’allucinazione.

Sono proprio queste le ovvie circostanze nascoste dalla fallacia dell’essere-sapere, per la quale siamo tutti piccoli fisici e piccoli chimici intenti a costruire esperienze proprio come si costruiscono esperimenti in laboratorio. Questa fallacia apre un sentiero battuto dalla stragrande maggioranza dei filosofi tra Otto e Novecento. Intitolare la propria rivoluzione al nome di Copernico, ossia di colui che – almeno per la coscienza moderna – ci ha insegnato che il Sole non tramonta per davvero, è certo fuorviante (visto che appunto la rivoluzione di Kant è piuttosto tolemaica), ma vuol dire eleggere quale punto di osservazione non ciò che vediamo, bensì quanto sappiamo, e soprattutto concludere che incontrare una cosa e conoscerla sono, in fondo, lo stesso. Le conseguenze sono molteplici, e definiscono la scena in cui opera il costruzionista moderno e postmoderno: si fa dipendere quello che vediamo da quello che sappiamo; si postula che ovunque sia in opera la mediazione di schemi concettuali; e, infine, si asserisce che non abbiamo mai rapporto con cose in sé, ma sempre e soltanto con fenomeni.

[Ferraris M., Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari, 2012, pp. 39-43]