Un Caso Di Apprendimento Organizzativo
a cura di Loretta Fabbri
Il processo di cambiamento che descriveremo è avvenuto all’interno di un Ateneo che ha dovuto affrontare il problema strategico di allineare la propria struttura organizzativa ad un assetto caratterizzato da una forte criticità economica. In un certo senso la crisi si è configurata come un “incidente critico organizzativo” (la crisi economica, il passaggio da Facoltà a Dipartimenti, la progettazione di corsi di laurea sostenibili, la necessità di riscrivere i copioni del potere), che ha dato avvio a un processo di costruzione di una nuova comunità, più riflessiva e capace di valutare il grado di efficacia delle proprie azioni. Per tutti gli attori organizzativi si è trattato di partecipare a traiettorie di trasformazione con logiche progettuali in grado di intercettare e tematizzare le debolezze e i punti di forza attraverso cui far fronte ai nuovi destini, sicuramente incerti, ma anche sfidanti (Fuller, Unwin, Felstead, Jewson, & Kakavelakis, 2007). Dentro questi nuovi scenari, ciò che era strutturale e indiscutibile, è diventato oggetto di negoziazione e proprietà condivisa di più soggetti. La nostra tesi è che i processi di sviluppo rimandino, non tanto all’applicazione di procedure, quanto al potenziamento delle risorse degli attori e della loro capacità di far fronte ai problemi (Fabbri, 2007).
Il caso qui presentato affronta il problema di come creare le condizioni più promettenti per generare una trasformazione organizzativa tramite dispositivi di supporto ai processi di apprendimento e costruzione di conoscenza (Fredberg, 2007). Il punto di osservazione è quello di chi ha proposto un progetto di trasformazione di una Facoltà di Lettere e Filosofia in un Dipartimento di Scienze della Formazione, Scienze Umane e della Comunicazione Interculturale.
Il passaggio dalle Facoltà ai Dipartimenti ha rappresentato un caso particolarmente interessante di studio: la disgregazione e la riaggregazione di una comunità accademica intorno alla progettazione dello sviluppo organizzativo, scientifico e didattico di una nuova struttura organizzativa dove confluisce ricerca, didattica e amministrazione: il Dipartimento. Non è stato semplice per la comunità accademica capire le profonde trasformazioni che hanno cambiato per sempre non solo l’università, ma molto più concretamente l’identità professionale del docente universitario. Nel caso in oggetto il passaggio da Facoltà a Dipartimento per molti colleghi doveva tradursi in un semplice cambiamento di nome, conservando il più possibile l’esistente. Da presidiare era dal loro punto di vista soprattutto il potere della propria area disciplinare. La transizione ha sottolineato tutte le contraddizioni di una comunità accademica cresciuta su una programmazione separata dalle esigenze dell’offerta formativa, caratterizzata da evidenti sbilanciamenti tra esigenze di sostenibilità e presenza a volte massiccia di settori in aree più periferiche dei curricoli formativi. Inoltre, in un periodo di razionalizzazione delle risorse, era necessario presentare un progetto in grado di differenziarsi e caratterizzarsi rispetto ai corsi già presenti in Ateneo. Sono esplose tutte le distorsioni epistemologhe e sociolinguistiche che possono caratterizzare una comunità scientifica dell’area umanistica: l’orgoglio di appartenere a una tradizione letteraria-filosofica e storica, a fronte di una proposta dove diventavano centrali le scienze sociali, le scienze della formazione e la professionalizzazione dei saperi. La dipartimentalizzazione dell’università ha aperto processi su quali non vi era esperienza e questo ha richiesto l’attivazione di costanti attenzioni riflessive rispetto alle influenze reciprocamente esercitate.
Di fronte a un macro-cambiamento regolato da nuovi dispositivi legislativi, si sono creati spazi mobili che hanno sollecitato costanti aggiustamenti delle singole posizioni rispetto a quella degli altri, con l’obbligo di costruire credibilità, fiducia e conoscenza reciproca. Si sono spostati docenti, corsi di studio, personale tecnico-amministrativo, ma anche gli artefatti tecnologici, gli spazi, le cose. Dietro il processo di dipartimentalizzazione vi è stato un coinvolgimento epistemico, fisico, personale ed emotivo che spesso ha avuto come esito l’aumento della consapevolezza e della riflessione circa le opzioni adottate. In questa esperienza, contraddistinta da tempi lunghi di sedimentazione e da livelli diversificati di partecipazione, ha prevalso il progetto di un Dipartimento caratterizzato da corsi di laurea professionalizzanti. Un progetto nel quale sono stati tagliati i “rami secchi” meno attrattivi privilegiando approcci multidisciplinari alla ricerca e alla didattica, prestando attenzione al rapporto con le imprese coinvolgendole fin da subito nella riprogettazione dei corsi di laurea.
Altri processi di apprendimento sono stati progettati per accelerare le trasformazioni organizzative e lo sviluppo di nuove capacità. Si è prestata particolare attenzione a processi di apprendimento strutturale. Si sono riprogettati gli spazi di tutti gli attori organizzativi.
Il personale tecnico-amministrativo proveniente dai diversi Dipartimenti e ricollocato dentro un cambiamento sistemico dell’organizzazione del lavoro, è stato collocato in un medesimo spazio di lavoro. La struttura fisica è stata organizzata per facilitare il contatto tra i membri di varie unità, per supportare i processi di condivisione delle pratiche e delle conoscenze. Le varie unità organizzative di base non avevano storie condivise, né pratiche di confronto e scambio. Incontri formali e informali su incidenti critici, dilemmi disorientanti, hanno nel tempo consentito di attenuare i conflitti, apprendere forme di collaborazione professionale in grado di superare simpatie o antipatie, apprezzare il gruppo di lavoro come risorsa per risolvere i problemi. Lo spazio condiviso, per quanto non apprezzato inizialmente, è diventato una metafora per apprendere a lavorare insieme. Non si è trattato di traiettorie lineari o che hanno seguito linee evolutive, ma di spazi, di riunioni su questioni concrete, su esperienze di successo o insuccesso, che hanno delineato un percorso di apprendimento che ha messo in discussione l’idea del lavoro come compito individuale. Ha introdotto l’idea del gruppo come risorsa e ha fatto apprezzare l’importanza di analizzare l’esperienza e le pratiche lavorative proprie e altrui.
Un gruppo di studenti che ha promosso una ricerca sulla vita universitaria ha facilitato l’istituzionalizzazione di spazi dedicati allo studio collettivo, al lavoro di gruppo, all’autoapprendimento. Non solo ha accelerato i processi di innovazione didattica evidenziando alcune criticità – lontananza delle teorie dai problemi concreti, bisogno di discutere e non solo di ascoltare – ma ha avanzato proposte. Il gruppo di studenti è stato legittimato come osservatorio particolarmente significativo, come forum di sviluppo del Campus in grado di presidiare il punto di vista degli studenti nella progettazione della vita universitaria. Il gruppo iniziale di studenti si è configurato come una comunità di problem solving costituito da studenti esperti della vita universitaria e attori attivi della governance, in grado di socializzare le conoscenze acquisite a livello organizzativo più ampio (O’Neil & Marsick, 2009). Creare spazio per gli studenti ha significato riprogettare quello dei docenti (Van de Ven, 2007). La partecipazione degli studenti alla vita universitaria, la tematizzazione del loro diritto ad abitare l’università non solo nelle aule e nei corridoi o in biblioteca, dove studiare in silenzio, hanno dimostrato di essere punti di riferimento importanti per attivare nuove disponibilità al cambiamento.
Quale comunità accademica, spesso, non siamo consapevoli della differenza tra le nostre teorie dichiarate e le nostre teorie in uso e, quindi, non crediamo sia necessario apprendere nuovi schemi di azione professionale. Nessuno sosterrebbe che non sia necessario adottare metodologie in grado di cogliere e valorizzare gli studenti, tematizzando anche i loro tempi, le loro esigenze di apprendimento in un ambiente che favorisca lo scambio e la dialettica positiva. Eppure, le metodologie didattiche tradizionali come la lezione frontale sono ancora le più utilizzate. In molti siamo convinti che sia necessario pensare come l’università possa sempre più assumere l’impegno di valorizzare le diverse forme di conoscenza, ridimensionando l’egemonia del paradigma della “conoscenza teorica”, per certi aspetti incapace di apprezzare la conoscenza pratica, le culture professionali e i saperi personali. Uno dei maggiori contributi che gli studi sulle epistemologie professionali ci restituiscono è la consapevolezza che le comunità professionali apprendono, riescono a innovarsi solo a determinate condizioni (Mezirow & Taylor, 2011) e mediante specifici dispositivi formativi che permettono di riflettere criticamente e cambiare il proprio modo consuetudinario di affrontare i problemi e fare le cose.
BIBLIOGRAFIA
L. Fabbri, Comunità di pratiche e apprendimento riflessivo. Carocci, Roma (2007).
T. Fredberg, Real Options for Innovation Management. “International Journal of Technology Management” , 39(1/2), (2007) p. 72-85.
A. Fuller – L. Unwin – A. Felstead, N. Jewson – K. Kakavelakis, Creating and using knowledge: an analysis of the differentiated nature of workplace learning environments. “British Educational Research Journal”, 33(5) (2007), p. 743-759.
J. Mezirow – E. W. Taylor (Eds.), Transformative Learning: theory to practice. Insights from Community, Workplace, and Higher Education. John Wiley, San Francisco 2011.
J. O’Neil – V. J. Marsick, Peer Mentoring and Action Learning. “Adult Learning”, 20(1/2), (2009), p. 19-24.
A. H. Van de Ven, Engaged scholarship: A guide for organizational and social research. Oxford University Press, Oxford 2007,