a cura di Claudio Melacarne
Fino alla metà del XX secolo con il termine Educational Practices si identificavano nella letteratura nazionale e internazionale soprattutto quell’insieme di attività caratterizzanti il lavoro dell’insegnate all’interno dei contesti formali di istruzione (scuola, università, ecc.). Attualmente, il termine viene utilizzato con uno spettro semantico più ampio identificando tutte quelle pratiche finalizzate a sostenere i processi di costruzione di conoscenza (Fabbri, Striano, Melacarne, 2011). Questo slittamento di significato è riconducibile a un passaggio epistemologico importante avvenuto intorno agli anni ’70 a seguito del quale la ricerca educativa ha adottato approcci di ricerca più interdisciplinari e si è arricchita di prospettive teoriche e metodologiche non immediatamente riconducibili all’ambito pedagogico-didattico (es: studi organizzativi, etnometodologia). Ridefinendo i propri confini di pertinenza scientifica, rileggendo con lenti diverse i suoi tradizionali oggetti di studio e generandone di nuovi, la ricerca educativa ha avviato diversi programmi di ricerca volti a studiare le Educational Practices anche fuori dei contesti scolastici: nel lavoro, nei luoghi ad alta densità tecnologica, nella vita quotidiana (Fabbri, Rossi, 2010; Rivoltella, 2008; Stenberg, 2000). Il lavoro educativo e formativo diventa così l’attività di ideazione, progettazione e gestione di quelle particolari Educational Practices caratterizzanti una comunità di persone o di professionisti che si occupano di promuovere traiettorie di sviluppo personale o professionale (Lave, 1996).
Da questi studi emergono almeno tre caratteristiche che definiscono le Educational Practices. Queste possono essere descritte come:
- situate, in quanto generate dai sistemi di attività entro i quali prendono forma. Chi ha compiti educativi, in questo senso, è artefice e responsabile delle pratiche alle quali partecipa ma, parallelamente, queste vengono influenzate dalle regole esplicite e implicite, dalle culture, dalle norme, dai vincoli materiali e immateriali che connotano un contesto (Lave, Wenger, 2006). Esse diventano allora comprensibili e trasformabili se avvicinate con approcci metodologici capaci di cogliere l’idiograficità dei fenomeni educativi, la loro natura locale, circostanziata e storica;
- embedded, perché pur definendosi anche grazie al contributo dei saperi teorici, esse si alimentano della conoscenza prodotta dagli attori organizzativi che popolano un’organizzazione, un contesto sociale o una comunità di persone (Sternberg, 2000). Più che ancorate al sapere scientifico, le pratiche educative nascono nel tessuto relazionale che connota un ambiente di vita o di lavoro e si sviluppano grazie ai saperi prodotti dagli stessi attori coinvolti nella pratica;
- riflessive, in quanto possono essere trasformate agevolando i processi di costruzione e condivisione della conoscenza delle comunità di persone o di professionisti attraverso l’individuazione, la descrizione e la ridefinizione dei saperi taciti che hanno prodotto nel corso della loro storia di apprendimento (Fabbri, 2007; Striano 2001; Melacarne, 2011).
Un ambito di ricerca ancora largamente dibattuto riguarda quelle che in letteratura scientifica vengono definite Educational Reflective Practices e Paticipatory Educational Practices (Malloch, Cairns, Evans, O’Connor, 2011). Queste identificano quelle pratiche educative che adottano rispettivamente approcci riflessivi o partecipativi (Fisher-Yoshida, Geller, Schapiro, 2009) al fine di rispondere al bisogno crescente delle persone e delle organizzazioni di apprendere nuove modalità utili a gestire la complessità dei problemi emergenti dall’esperienza quotidiana di vita o di lavoro.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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PER L’APPROFONDIMENTO E LA RICERCA
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