a cura di Silvia Fioretti
Lo schema, o la struttura concettuale, che interpreta il mondo è, per Putnam, una funzione degli schemi concettuali umani. Il mondo, la sua descrizione, non esiste indipendentemente dalla mente, ma ‘esiste’ solo attraverso gli strumenti che usiamo per conoscerlo. Il punto di vista è ‘interno’ alle nostre teorie e gli oggetti conosciuti sono subordinati al nostro apparato conoscitivo. Infatti, un fisico e un arredatore forniranno descrizioni differenti di una medesima stanza ma entrambe saranno descrizioni di come essa è realmente. Le descrizioni non sono riducibili l’una all’altra e nessuna di esse rappresenta la vera descrizione del mondo ma entrambe parlano delle stesse cose. Si ammettono così più descrizioni vere del mondo nel senso che gli oggetti che descrivono sono diversi poiché sono le formulazioni, cioè gli schemi concettuali interni al quadro teorico, le ‘versioni’ che assumiamo del mondo, a specificare i ‘fatti’ di cui si sta parlando.
Realismo con la ‘r’ minuscola e con la ‘R’maiuscola
Il tentativo di dire che la garanzia (e la verità) è semplicemente una questione di accordo da parte della comunità è, al tempo stesso, una cattiva descrizione delle nozioni che di fatto abbiamo e un tentativo fallimentare di avere e insieme di negare una ‘prospettiva assoluta’. Siamo quindi costretti – alla fine, se non all’inizio – a diventare ‘realisti metafisici’? Non esiste una via di mezzo?
Se dire ciò che diciamo e fare ciò che facciamo è essere ‘realisti’, allora faremmo meglio ad essere realisti – con la ‘r’ minuscola. Ma le versioni del ‘realismo’ vanno al di là del realismo con la ‘r’ minuscola fino a sconfinare in certe forme caratteristiche di fantasia filosofica. In questo caso sono d’accordo con Rorty.
Ecco una caratteristica della nostra pratica intellettuale che queste versioni hanno enormi difficoltà a spiegare. Da un lato, alberi e sedie – i ‘questi e quelli che possiamo indicare’ – sono, come osservava Wittgenstein, esempi paradigmatici di ciò che chiamiamo ‘reale’. Ma prendiamo ora in considerazione una questione circa la quale Quine, Lewis e Kripke non sono d’accordo: quale relazione vi è tra l’albero o la sedia e la regione dello spazio-tempo da essi occupata? Secondo Quine, la sedia e il campo elettromagnetico insieme agli altri campi che la costituiscono e la regione dello spazio-tempo che contiene questi campi sono la stessa e identica cosa: pertanto, la sedia è una regione spazio-tempo. Secondo Kripke, Quine ha assolutamente torto: la sedia e la regione spazio-tempo sono due oggetti numericamente distinti. (Pur avendo, tuttavia, la stessa massa!) Ne è prova il fatto che la sedia avrebbe potuto occupare una diversa regione dello spazio-tempo. Per Quine i predicati modali sono irrimediabilmente vaghi e, pertanto, tale ‘prova’ non ha nessun valore. Secondo Lewis, Quine ha ragione per quel che riguarda la sedia ma ha torto per quel che riguarda i predicati modali. La risposta corretta per Kripke è: ammesso, come diciamo, che la sedia avrebbe potuto trovarsi in una posizione diversa, ciò che questo significa è che una controparte della sedia avrebbe potuto trovarsi in quella posizione; non che vi si sarebbe potuta trovare questa sedia medesima (nel senso della nozione logica di identità [=]).
Ebbene, chi ha ragione? La sedia è davvero identica alla propria sostanza, oppure coesiste, in certo qual modo, nella stessa regione spazio-temporale con la propria sostanza pur rimanendo numericamente distinta da essa? E la sua sostanza è davvero identica ai campi? E i campi sono davvero identici alle regioni dello spazio-tempo. Mi sembra evidente che almeno la prima di queste questioni e, probabilmente tutte e tre, sono prive di senso. Possiamo formalizzare la nostra lingua nel modo in cui vorrebbe Kripke e possiamo formalizzarla nel modo in cui vorrebbe Lewis, e (grazie a Dio!) possiamo lasciarla così com’è senza pretendere che l”è’ del linguaggio ordinario obbedisca alle stesse regole del segno ‘=’ dei sistemi di logica formale. Neppure Dio potrebbe dirci se la sedia è ‘identica’ alla propria sostanza (o alla regione dello spazio-tempo); e non perché vi sia qualcosa che Egli non conosca.
Sembra quasi che perfino una cosa così paradigmaticamente ‘reale’ come una sedia abbia aspetti che sono convenzionali. Che la sedia sia blu è una ‘realtà’ in senso paradigmatico, e tuttavia, che la sedia [sia/non sia/non occorre deciderlo] una regione dello spazio-tempo è questione di convenzione.
E che dire della regione dello spazio-tempo? Certi filosofi considerano i punti come predicati di luogo, non come oggetti. Pertanto, se questa concezione è giusta, una regione dello spazio-tempo non è altro che un insieme di proprietà (se questi filosofi hanno ragione) e non un oggetto (nel senso di oggetto concreto). Qui, inoltre, non sembra esservi affatto una ‘concezione’, quanto, piuttosto, un ulteriore modo in cui potremmo ricostruire la nostra lingua. Ma come può l’esistenza di un oggetto concreto (la regione dello spazio-tempo) essere questione di convenzione? E come è possibile che sia questione di convenzione l’identità di A (la sedia) e di B (la regione dello spazio-tempo)? Il realista con la ‘r’ minuscola non è tenuto ad avere una risposta a queste domande. È semplicemente un fatto, può pensare il realista, che certe alternative siano ugualmente buone laddove altre sono palesemente obbligate. Ma il realismo metafisico non è soltanto la concezione che, dopo tutto, esistono delle sedie, e che, dopo tutto, alcune di esse sono blu, e che non siamo proprio stati noi ad inventare tutto ciò. Il realismo metafisico si presenta come una potente visione trascendentale: una visione in cui vi è una ‘relazione’ stabilita tra i termini e le loro estensioni. Ciò che sostengo è che tale visione concorda solo in parte con l’opinione del senso comune che pretende di interpretare; essa ha conseguenze del tutto assurde dal punto di vista del senso comune. Non vi è assolutamente nulla di sbagliato nell’aderire al realismo con la ‘r’ minuscola liberandosi nel contempo del Realismo con la ‘R’ maiuscola dei filosofi.
Sebbene Hans Reichenbach fosse ben lungi dall’essere un Realista con la ‘R’ maiuscola, egli aveva una concezione del compito della filosofia che, qualora si fosse realizzata, avrebbe probabilmente salvato il Realismo dall’obiezione appena sollevata: il compito della filosofia, scriveva Reichenbach, è distinguere ciò che è fatto da ciò che è convenzione (‘definizione’) nel nostro sistema di conoscenze. Il problema, come ha fatto notare Quine, è che la distinzione filosofica tra ‘fatto’ e ‘definizione’, su cui Reichenbach faceva assegnamento, è venuta a mancare. Come ulteriore esempio, non diverso da quello appena impiegato, si consideri il carattere convenzionale di qualunque possibile risposta alla domanda: “Un punto è identico ad una serie di sfere ad esso convergenti?”. Sappiamo che è possibile considerare regioni estese come oggetti primitivi e che è possibile ‘identificare’i punti come insiemi di sfere concentriche e che, così facendo, tutti i fatti della geometria sono rappresentabili in modo perfettamente accurato. Sappiamo, altresì, che è possibile considerare i punti come primitivi e considerare le sfere come insiemi di punti. Ma proprio l’asserzione ‘possiamo fare l’una e l’altra cosa’ dà per acquisito un ampio bagaglio di fatti empirici. Cambiamenti basilari nel modo di fare fisica potrebbero modificare l’intero quadro. ‘Convenzione’ non significa, pertanto, convenzione assoluta – verità per stipulazione, affrancata da ogni componente ‘fattuale’. E, d’altro lato, anche quando vediamo ‘realtà’ come gli alberi, la possibilità di una tale percezione dipende da un intero schema concettuale, da un linguaggio appropriato. Che cosa è fattuale e che cosa convenzionale è questione di grado; non è possibile dire, ‘Questi e quest’altri elementi del mondo sono fatti grezzi; il resto è convenzione o una mescolanza delle due cose’.
Quel che sto dicendo, pertanto, è che gli elementi di ciò che chiamiamo ‘linguaggio’ o ‘mente’ permeano così profondamente ciò che chiamiamo ‘realtà’ che l’idea stessa di immaginarci nelle vesti di ‘cartografi’ di qualcosa di ‘indipendente dal linguaggio’ è fatalmente compromessa fin dall’inizio. Pur se in modo diverso, il realismo, al pari del relativismo, è un tentativo impossibile di guardare il mondo da nessun luogo. In tale posizione si è tentati di dire: “Noi dunque creiamo il mondo” oppure “il linguaggio costruisce il mondo” o “la nostra cultura costruisce il mondo”; ma si tratta solamente di una variante del medesimo errore. Cedendo a questa tentazione si considererà il mondo – l’unico mondo che conosciamo – ancora una volta come prodotto. Una categoria di filosofi ritiene che il mondo sia prodotto a partire da una materia prima: la realtà non concettualizzata. Un’altra categoria di filosofi lo considera creato ex nihilo. Ma il mondo non è un prodotto. Il mondo è semplicemente il mondo.
Qual è dunque la conclusione? Da un lato – e qui spero che Rorty sia d’accordo con me – la nostra immagine del mondo non può essere ‘giustificata’ da altro che dal successo della medesima, giudicato alla luce degli interessi e dei valori che si evolvono e che vengono modificati contemporaneamente e in interazione con l’evolversi della nostra stessa immagine del mondo. Proprio come si dovette abbandonare la dicotomia che contrapponeva in modo assoluto ‘convenzione’ e ‘fatto’, così, e per ragioni analoghe (come ha messo in evidenza Morton White molto tempo fa), bisogna abbandonare la dicotomia che contrappone in modo assoluto ‘fatto’ e ‘valore’. D’altro canto, fa parte di quella stessa immagine l’idea che il mondo non sia un prodotto della nostra volontà – e, neppure, della nostra tendenza a parlare in certi modi.
[Putnam H., Realismo dal volto umano, Il Mulino, Milano, 1995, pp. 135-139]