di Paola Alessia Lampugnani[1]
Pubblicato per la prima volta nel 1958, La condizione umana è l’ opera della filosofa tedesca Hanna Arendt che per la prima volta propone e affronta il concetto di vita activa.
Il testo, che affonda le sue radici nello studio approfondito di Marx e della fondamentale tematica del lavoro, si propone di indagare il concetto di ‘condizione umana’ nel suo inscindibile binomio con l’idea di mondo, focalizzandosi su una revisione critica delle antropologie filosofiche che si sono susseguite l’una all’altra nel corso della storia dell’Occidente.
Proprio partendo dal riconoscimento della necessità di rispondere alla domanda alla quale da sempre qualsiasi forma di conoscenza ha cercato di rispondere – ‘chi è l’uomo?’ – Arendt propone il concetto di rivalutazione dell’agire come diversa e rinnovata definizione dell’identità umana, capace di coniugare l’idea di Uomo – o meglio di Umanità – con le idee di mondo, di vita, di azione politica.
Ponendosi in soluzione di continuità rispetto alle filosofie che – da Platone sino a Marx, Hussler, Heidegger – hanno fondato i propri paradigmi sull’idea di preminenza di una delle facoltà dell’uomo sulle altre, Arendt propone il superamento dell’idea di primato che alle diverse funzioni umane è stato alternativamente attribuito nel corso della storia del pensiero occidentale. Così, dinanzi alla constatazione di come ciascuna epoca storica abbia fondato la legittimità del predominio di una singola facoltà o attività sulle altre (l’agire, il pensiero, la contemplazione, la conoscenza obiettivante, il lavoro), l’autrice sostiene la necessità di interrompere questa costruzione filosofica del mondo, proponendo una posizione «assiomatica che si giustifica nella sua capacità di aprire una nuova possibilità di rappresentare l’identità umana» (Dal Lago, 2009, p. XIV).
Più che una nuova e ulteriore antropologia filosofica dunque, il testo di Arendt rappresenta l’elogio di una dimensione della ‘condizione umana’ che nel corso della storia del pensiero è stata sempre più marginalizzata e che l’epoca contemporanea ha pressochè dimenticato.
Tale dimensione, quella dell’agire, rappresenta la cifra realmente umana – umanizzante – in quanto unica, tra le tante, a sottendere per sua stessa natura la condizione di pluralità. Non è infatti nel lavorare e nel fabbricare – per quanto anch’esse condizioni imprescindibili della vita activa – o nelle attività di pensiero e riflessione – proprie della vita contemplativa, che si svolge nell’interiorità di ciascun individuo – che gli uomini entrano in rapporto diretto tra loro e si riconoscono l’un l’altro.
Per quanto sia dunque necessario negare la tradizionale superiorità della vita contemplativa su quella attiva, e per quanto appaia altrettanto necessario riconoscere la loro pari dignità, per Arendt risulta quanto mai essenziale restituire valore all’agire in quanto dimensione garante di quella cifra – la pluralità – attraverso la quale si disvela la condizione umana: «Non l’uomo, ma gli uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra» (Arendt, 2009, pp. 99).
Mentre infatti molte altre facoltà umane come il pensiero, la volontà, la creatività e l’amore sono esercitabili anche nell’isolamento, solo l’agire presuppone come indispensabile la pluralità degli uomini. Agire è non possibile, non pensabile e non rappresentabile senza la presenza di altri esseri umani che partecipino, assistano, rispondano, reagiscano o si oppongano all’atto. L’azione, peraltro, permette agli uomini di entrare in rapporto diretto senza la mediazione di oggetti naturali, materiali, artificiali.
Inoltre, la pluralità è umana non solo perchè sulla Terra ci sono gli uomini e non l’uomo: la condizione umana è plurale perchè diverse – e non esclusive – sono le facoltà e le attività umane.
La realizzazione dell’identità passa dunque attraverso il dispiegarsi dell’agire: tramite l’azione il soggetto si manifesta ad altri soggetti, senza che vi sia subordinazione – come accade per altre attività umane – rispetto all’atto, o rispetto all’altro. Colui che agisce appare agli altri nella sua identità e nelle sue differenze.
E poichè l’identità dell’uomo è un’identità transitiva – che si rivela a più soggetti che partecipano assieme ad altri all’evento dell’agire – l’identità che in tal modo si manifesta non è un’affermazione di un uomo o della sua coscienza, ma un evento che trova luogo tra gli uomini.
L’agire è inoltre un evento trascendente, poichè per quanto possa essere motivato da scopi, motivi, interessi, li trascende, allo stesso modo in cui il manifestarsi dell’identità di chi agisce eccede il suo fare, pur essendo inseparabile dalle azioni che compie. L’uomo cioè si rivela come tale solo quando agisce e soprattutto perchè agisce, pur non alienandosi nell’atto, in quanto riconosciuto dagli altri uomini tra i quali egli opera.
Se la pluralità è la prima delle condizioni attraverso cui l’agire si esplica, imprevedibilità e libertà rappresentano altre due dimensioni essenziali nel connotare l’azione e nel renderla diversa da altre forme del comportamento umano. La libertà e l’imprevedibilità infatti, permettono all’uomo di sottrarsi al rischio della ripetitività, che caratterizza invece le forme inferiori di attività, in particolare il lavoro. Se così non fosse, l’agire sarebbe semplice comportamento, caratterizzato da prevedibilità e uniformità, e renderebbe impossibile il manifestarsi (a se stesso e agli altri) dell’identità dell’agente.
E poichè l’agire – dimensione imprevedibile e libera – trova luogo all’interno di un insieme di soggetti in relazione, tale imprevedibilità si traduce – nel ‘gioco’ dell’ agire e re-agire – in consequenzialità, ossia nella possibilità di ottenere conseguenze non prevedibili – appunto – in anticipo, in una sequenza a catena di azione e reazione che diviene potenzialmente turbolenta. Questa turbolenza «non è altro che una metafora dell’imprevedibile svolgimento dell’agire, dove azioni e reazioni costituiscono una rete – o meglio una sorta di gioco inter-umano impensabile senza limiti e senza regole» (Dal Lago, 2009, p. XVI).
Tale turbolenza – tale dinamicità – rappresenta secondo la Arendt proprio ciò che nell’agire collettivo, pubblico, è andato perduto, sostituito dal prevalere di attività finalizzate alla produttività, allo sfruttamento e al consumo di beni e risorse. La complessità e l’imprevedibilità delle azioni prodotte da una pluralità di uomini, ritenute minaccia per l’ordine delle relazioni umane, hanno infatti spinto a teorizzare forme di ‘buon governo’, capaci di trasformare l’agire in comportamenti standardizzati, uniformanti, conformati, contribuendo così non solo alla riduzione quasi totale della partecipazione degli uomini alle ‘cose pubbliche’, ma anche al primato delle attività produttive che hanno come unico scopo la mera conservazione della vita. Il primato del ‘darsi da fare’ per la pura sopravvivenza genera così una perdita di ragion d’essere tanto della vita activa quanto della vita contemplativa. Il fare diviene un complemento della tecnica, e il pensare si trova ad avere, come suo unico oggetto, il mondo interiore per mezzo dell’introspezione. Così, mentre la sfera dell’agire viene sottomessa a quella del fare e dell’utilità, il pensiero, sempre più relegato a dimensioni private, diviene sempre più indifferente alla dimensione politica. Questo processo, che Arendt definisce come ‘perdita del mondo’, raggiunge il suo massimo proprio nelle società di massa dove – come estrema conseguenza – lo spazio politico non esiste più e la sfera pubblica non riesce più «a riunire le persone impedendo che si cadano addosso» (Arendt, 2009, p. 228). Non riesce più, cioè, a preservare l’unicità nella molteplicità, perchè l’uguaglianza che auspica l’uomo post-moderno altro non è se non un livellamento che ingloba e conforma tutto ciò che è indifferente e singolare.
Dinanzi a tale disfatta – la disfatta dell’homo faber – Arendt auspica la fondazione di una scienza politica capace di recuperare la centralità dell’agire e capace – soprattuto – di recuperare quel discorso sull’agire necessario affinchè l’agire stesso sia dotato di senso. Occorre infatti che un’azione venga raccontata, perchè risulti realmente significativa; raccontata e narrata affinchè chi non è presente, chi non può assistere al suo compiersi, e mediante esso al manifestarsi di chi opera, possa conoscere e sapere.
Solo in questo modo il tempo che viviamo ‘eccede’ il tempo biologico ‘sfondando’ passato e futuro, permettendo all’uomo – agli uomini – di vivere, per mezzo del loro agire, una ‘seconda nascita’, quella che permette di entrare nel mondo umano: «con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale» (Arendt, 2009, p. 128).
Tale nascere al mondo umano non è nè imposto da necessità quali il lavoro e la sopravvivenza, nè determinato da bisogni o desideri. Al contrario, emerge in modo incondizionato attraverso l’atto di incominciare, di iniziare, che è cifra costituente dell’azione. Agire è infatti avvio, inizio, cominciamento, messa in moto e – in ultima istanza – rivelazione. Rivelazione della propria ‘possibilità’, della propria identità, unica e distinta, all’interno dell’umanità: «Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perchè ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità» (Arendt, 2009, p. 129).
L’agire dunque è quella dimensione umana che è capace di una donazione di senso profonda e duratura della vita umana, che permette all’uomo di superare la banalità del quotidiano e di elevarsi al di sopra dei meri bisogni materiali, che garantisce di non cadere nella spirale della passività e della perdita di responsabilità che conduce l’uomo a rinunciare alla propria identità e gli uomini tutti a dimenticare il valore umanizzante della partecipazione.
Il concetto di vita activa così teorizzato e sviluppato ben si presta ad una sua declinazione sul piano pedagogico. L’idea di protagonismo umano, inteso come prerequisito necessario ad una progettazione attiva della propria esistenza, la sottolineatura dell’unicità di ciascun soggetto, l’attenzione alla costruzione del percorso personale di vita come agire tra gli altri, la prospettiva delle possibilità e l’idea dell’intrinseca inconoscibilità degli esiti rimandano infatti a prospettive educative – quale ad esempio quella del problematicismo pedagogico – che fondano i propri paradigmi sull’accettazione dell’immaginato e della progettualità personale, sull’idea di soggetto come portatore di istanze e al contempo di limiti e fragilità, sulla consapevolezza della necessità di un agire spinto da una tensione che accetta la problematicità ma che al contempo ne sconfina i limiti per orientarsi al futuro.
BIBLIOGRAFIA
Arendt H. (2009), Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani.
Dal Lago A. (2009), Introduzione, in H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, pp. VII-XXVIII.
PER LO STUDIO E L’APPROFONDIMENTO
Bertin G.M. (2004), Educazione alla progettualità esistenziale, Roma, Armando.
Bertin G.M., Contini M. (1983), Costruire l’esistenza. Il riscatto della ragione educativa, Roma, Armando.
Contini M. (2006), Categorie e percorsi del problematicismo pedagogico, in “Ricerche
di Pedagogia e Didattica”, 1, https://rpd.unibo.it/article/view/1457/839 [data ultima consultazione Marzo 2017].
Ilardo M. (2014), L’evento educativo: uno sguardo pedagogico al ‘pensiero indipendente’ di Hanna Arendt, in “Studi sulla Formazione”, 1, pp. 165-180.
[1] Paola Alessia Lampugnani è dottoranda presso la Scuola di Scienze Sociali dell’Università di Genova. Collabora, in qualità di cultore della materia, con la cattedra di Didattica degli eventi culturali e la cattedra di Progettazione e valutazione educativa del Dipartimento di Scienze della Formazione.