Simbolo

a cura di Lucia Martiniello


Pur condizionati dall’efficientismo dei tempi correnti e dalla mai sopita cultura positivista, che sempre si accompagna al mito dell’efficienza, è un po’ difficile credere che i comportamenti dipendano unicamente dai fatti, dalle circostanze o dalle reazioni, che fatti e circostanze suscitano nella persona. Al contrario nell’esperienza quotidiana sperimentiamo continuamente che il comportamento individuale e quello di gruppo dipendono anche e in larga parte da una serie di percezioni che vanno al di là del semplice dato effettuale.

Tanto nell’agire personale quanto nell’agire delle organizzazioni, le immagini contano, talvolta, più delle cose, i significati convincono più delle analisi e le emozioni trascinano di più di quanto non procurino regole, norme e prescrizioni.

A ben guardare, ogni cosa ha una pluralità di valenze e proprio per questo ogni cosa vale a seconda di quel che essa evoca o di quel che essa trasmette. Dinanzi ad un “oggetto” che procuri un senso di ripugnanza o difronte ad un comportamento che appaia lesivo della propria identità, è difficile evitare atteggiamenti di fuga, né servono rassicurazioni o espressioni di generico incoraggiamento.

L’universo dei significati che si aggiungono alla “cosa” (o che si associano ad un comportamento) trova condensazione in un fascio di significati a loro volta raccolti, trasmessi e veicolati dal linguaggio, con la mediazione della cultura e della memoria.

Per questo gli specialisti del settore affermano che il significato è un prodotto sociale, in quanto costruito o ricostruito attraverso un “processo interpretativo” [1] che impegna tanto la persona quanto i gruppi sociali e le stesse organizzazioni.

Quando uno o più significati si condensano in una immagine, che a sua volta si associa ad un valore e/o ad un oggetto, allora parliamo di simbolo.

La forza del simbolo sta nella sua capacità di evocare la relazione esistente fra l’oggetto (cui si riferisce) e l’immagine mentale (che esso evoca). La bandiera, ad esempio, è simbolo della Patria, evoca la Patria e rende visibile tutta una serie di significati e di valori, socialmente condivisi e comunque connessi all’idea di Patria, al punto che un eventuale gesto oltraggioso nei confronti della bandiera verrebbe sanzionato e punito.

  1. Piaget ha studiato la genesi psicologica del simbolo, collocandola attorno ai due-tre anni di vita della persona, quando il bambino incomincia ad usare un oggetto per rappresentarne un altro[2], ed ha dimostrato la rilevanza della formazione simbolica e della sua interconnessione con il linguaggio. Lo studio del simbolo, tuttavia, parte da molto lontano e si sviluppa, anche dopo Piaget, lungo sentieri solitamente percorsi principalmente dalla ricerca filosofica e da quella sociologica, soprattutto in quei contesti d’analisi che permettono di cogliere il forte carattere intersoggettivo del simbolo.

Negli anni Venti del secolo scorso comparve la monumentale opera in tre volumi di E. Cassirer[3] che in Italia animò il dibattito filosofico e sociologico del secondo dopoguerra. A quei volumi si può riandare ancora oggi per rintracciarvi le radici più significative e le traiettorie più promettenti per la ricerca riguardante la funzione simbolica.

Dal punto dell’agire organizzativo è importante sottolineare che i simboli sono condivisi dal gruppo sociale o dalla comunità culturale, politica, religiosa di riferimento.

Una prospettiva di analisi particolarmente fertile, quella del cosiddetto interazionismo, ha messo in luce alcuni dei dinamismi che caratterizzano il processo di formazione e i processi di fruizione dell’universo simbolico, specialmente all’interno dei gruppi cosiddetti “devianti” o nella relazione fra questi gruppi e il resto della comunità sociale. Si è potuto anche studiare la funzione sociale del simbolo, la sua capacità esprimersi nell’agire organizzativo, la sua forza orientatrice dei comportamenti e dei vissuti.

In questa prospettiva la ricerca ha permesso di precisare e di distinguere il simbolo dallo stigma[4], di capire conseguentemente come si configurano le strategie attraverso le quali, all’interno di una organizzazione, è possibile trasformare un attributo capace di esprimere prestigio con una qualità che contrassegna uno stigma e procura discredito.

Nella economia complessiva di questo nostro intervento giova ricordare alcuni temi di speciale rilievo per l’agire organizzativo:

  1. Il significato e il simbolo non sono cose, né sono legati al contesto come fossero cose: essi sono relazioni[5]. Conseguentemente, ad esempio, un eventuale conflitto riguardante elementi simbolici sarebbe da riferire, non già a qualcosa o ad un fatto o ad uno specifico comportamento, ma a relazioni fra persone. E proprio perché agganciato ad elementi simbolici, risulterebbe sicuramente disturbante, potendo esso interferire – direttamente o indirettamente – con l’identità personale.
  2. All’interno delle organizzazioni, così come nella relazione fra organizzazioni, i simboli svolgono una funzione di mediazione[6]; ignorarla, trascurarla, equivocarla, significa danneggiare la vitalità dell’organizzazione o comunque ridurne lo spazio contestuale. Per contro, prestare attenzione alla dimensione simbolica significa favorire la relazione e incentivare i processi di crescita e di sviluppo.
  3. Il contegno e la deferenza (ovverossia gli stili comportamentali assunti per sé e quelli rivolti verso gli altri) e, più in generale, i rituali di interazione quotidiana[7] hanno una speciale attitudine a diventare simboli o comunque a ricoprirsi di forza e di valenza simbolica; quanto meno si configurano come simboli dell’ordine morale e quindi simboleggiano la società, le sue regole e i suoi valori; per questo è importante prestare attenzione a tutto quel che riguarda il contegno e la deferenza, senza trascurarne l’assetto bidirezionale, nel senso che il contegno di ciascuno prende corpo e rilievo nella relazione con quant’altri assumono un contegno in un determinato contesto.

Tutti questi aspetti sono in qualche misura richiamati dai recenti tentativi di generare la cosiddetta Humanistic enterprise[8], una variante della Social organization nella quale, in verità, gli aspetti strumentali hanno fatto dimenticare la dimensione simbolica, ribaltando l’assunto iniziale con la conseguente perdita della spinta innovativa.

Nell’impresa umanistica[9], la razionalità imprenditoriale lascia spazio all’intelligenza emotiva, valorizza le dimensioni simboliche, elabora nuovi modelli di management.

 

 


 

[1] H. Blumer, Symbolic Interactionism, University of California, Berkeley 1969.

[2] J. Piaget (1945), La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno. Immagine e rappresentazione, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1972

[3] E. Cassirer (1923–29), Filosofia delle forme simboliche, vv. 3, tr. it. a cura di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1961.

[4] Cfr. E. Goffman, Stigma. L’identità negata, tr. it., Ombre Corte, Verona, 2012.

[5] J.R. Gusfield, J. Michalowicz, Secular symbolism: Studies of Ritual, Ceremony, and the Symbolic Order in Modern Life, in “Annual Review of Sociology”, vol. 10, 1984, pp. 417-435, p. 418.

[6] Cfr. E. Durkheim (1912), Le forme elementari della vita religiosa, tr. it., Comunità, Milano 1963.

[7] Cfr. S. Birrell, Ch.L. Cole (a cura di), Women, sport, and culture, Human Kinetics, Champaign (IL) 1994.

[8] M.N. Zald, Organization studies as a scientific and humanistic enterprise: Toward a reconceptualization of the foundations of the field, in “Organization Science”, 4.4, 1993, pp. 513-528.

[9] Cfr. M. Minghetti, F. Cutrano (a cura di), Le nuove frontiere della cultura d’impresa. Manifesto dello humanistic management, Etas, Milano, 2004.

 


BIBLIOGRAFIA

 

Birrell S., Cole Ch.L. (a cura di), Women, sport, and culture, Human Kinetics, Champaign (IL) 1994.
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Minghetti M., Cutrano F. (a cura di), Le nuove frontiere della cultura d’impresa. Manifesto dello humanistic management, Etas, Milano, 2004.
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Zald M.N., Organization studies as a scientific and humanistic enterprise: Toward a reconceptualization of the foundations of the field, in “Organization Science”, 4.4, 1993, pp. 513-528.