a cura di Nicola Paparella
La differenza fra rimembranza e memoria, per quanto possa esser sottile, non è da trascurare.
La rimembranza fa riferimento all’atto, la memoria indica la facoltà.
La prima fa capire ciò che il soggetto compie o ciò che il soggetto subisce, come può essere la puntura della rimembranza di cui diceva Dante nel xii del Purgatorio, con una espressione che ha trovato qualche fortunato recupero anche di recente. La seconda indica la funzione che rende possibile l’atto, la capacità che consente l’azione, l’organo che genera la rimembranza.
La cultura greca, soprattutto con Platone e con le parole che questi attribuisce a Socrate, assegna alla rimembranza il rango e l’efficacia della maieutica, la strada maestra della ricerca e della conoscenza. Senza di essa l’uomo resterebbe quasi sperduto nell’anomia, nel disordine cosmico, nell’insicurezza dell’esistere e, soprattutto, nell’incertezza di un comportamento privo di orientamento.
La rimembranza ha sempre avuto, al tempo stesso, rilievo teoretico e valenza pratica, funzione conoscitiva e spessore etico. Sino a quando ha cominciato a vacillare la capacità dell’uomo di farsi carico del passato.
È lucida, in proposito, l’analisi di Nietzsche. “Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità”[1]. Nietzsche si preoccupa del peso del passato. Socrate puntava a dare forza all’uomo perché egli imparasse a conquistare la luce della consapevolezza di sé e della storia; per Socrate l’esercizio della memoria conferiva padronanza e sicurezza. Anche morale. Ma Nietzsche trova eccessivo ed insopportabile il peso dei ricordi. “L’uomo invidia l’animale, che subito dimentica [..]; l’animale vive in modo non storico, poiché si risolve nel presente [..] l’uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte”[2]. Ed ecco allora l’inevitabile conseguenza: “La serenità, la buona coscienza, la lieta azione, la fiducia nel futuro dipendono [..] dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare, al tempo giusto, quanto ricordare, al tempo giusto”[3].
Con Nietzsche si apre una breccia nella cultura millenaria dell’Occidente. Si apre un varco a favore della dimenticanza e dell’oblio; o forse uno spazio ancora più grande dove il peso del passato possa essere attenuato, o almeno addolcito dalla nostalgia e così trasformato in qualcosa che incanta e seduce, invece di inquietare e spingere all’azione.
La nostalgia rifiuta l’impegno e non dà spazio alla speranza. Quando non conduce alla depressione promuove l’inerzia e la rinuncia. È la medesima tentazione che conobbe il popolo di Israele quando nel deserto tornò a desiderare la falsa abbondanza delle cose d’Egitto. È un ricordo che spinge alla sosta e alla regressione. La nostalgia è penuria, privazione, mancanza[4].
La rimembranza è tutt’altra cosa, come già aveva notato, molti secoli prima, Aristotele: “Chi rammemora fissa per illazione che prima ha veduto o udito o sperimentato qualcosa e ciò è, in sostanza, una specie di ricerca”[5].
Non ci può essere pro-vocazione, non ci può essere “chiamata”, non ci può essere pro-azione, senza una spinta progettuale che nasca dalla memoria del passato.
La rimembranza degli eventi, che – nel bene o nel male – ci hanno visto protagonisti, spinge alla novità, orienta verso l’alterità, non taglia i ponti e non si impantana nella ruminazione e nell’inerzia. La memoria non smorza il desiderio, ché anzi viene canalizzato e reso produttivo, e libera dall’immobilismo, dalla sosta, dalla nostalgia, dalla ripetitività.
Lo sanno bene gli esperti della comunicazione sociale. Sul sentimento di nostalgia, infatti, fanno leva coloro che cercano un qualche artificioso raccordo tra l’identità personale e i processi di identificazione collettiva: non l’unità dinamica di un progetto condiviso in vista di obiettivi anch’essi condivisi, ma il ritrovarsi a “lacrimare” su una dimora perduta. È il segreto della improvvisa fortuna di certi movimenti politici e, al tempo stesso, il limite che interdice il cammino verso il progresso e lo sviluppo.
Nella prospettiva dell’agire organizzativo, il venir meno della memoria riduce lo spazio dell’apprendimento, toglie voce propositiva al contesto, pone in ombra i fini stessi del sistema.
In particolare sono possibili tre esiti distinti ed ugualmente prodighi di difficoltà inibenti il corretto sviluppo dell’agire organizzativo.
Senza rimembranza, infatti, l’agire organizzativo è destinato ad avanzare per tentativi ed errori, secondo ritmi e metodi sollecitati dal momento, suggeriti dalle diverse congiunture e destinati a diventare sempre più semplici e sempre più rigidi. È come se l’agire organizzativo volesse confrontarsi soltanto con il già visto, con il già noto, con già consolidato, ignorando ogni possibile investimento esplorativo. L’esito inevitabile, in questa ipotesi, è una sorta di contrazione progressiva che conduce a ridurre sia gli spazi della manovra operativa che i contenuti e, soprattutto i fini.
È esattamente quel che accade nei momenti di crisi, quando ci si chiude a riccio rispetto all’esperienza e si blocca ogni spinta verso l’innovazione, ogni tentativo di guardare con coraggio al futuro, ogni disponibilità a ricercare nel passato qualcosa che valga ad interpellare e a promuovere, che invochi diagnosi e chieda terapie, andando a cercare – nel contesto, sì, proprio nel contesto – i segni della svolta e dello sviluppo.
Rimembranza vuol dire aver fiducia delle ragioni dell’uomo e della forza della storia, capire che il futuro possibile non può che nascere qui ed ora e germoglia soltanto fra le mani di chi riesce a scorgerne la presenza nel groviglio dei problemi e delle difficoltà che circondano l’azione.
È anche possibile un altro esito. Anche questo problematico. Non più la contrazione dell’investimento ermeneutico, ma la dissipazione delle energie che generano l’agire organizzativo.
Nella dissipazione l’agire organizzativo resta orfano dell’esperienza. Il passato non è altro che la testimonianza di tutti gli errori possibili. “Rottamare” fa rima con ignorare e la spinta all’azione perde ragioni, criteri, regole, termini di verifica, prospettive. E tutto questo non sarebbe nemmeno il male peggiore se non vi fosse un evidente spreco di risorse destinate a cercare ciò che è già noto o a inventare ciò che è già desueto o ad affidarsi a metodologie palesemente inappropriate. Certe analisi dei bisogni, certe schemi docimologici, certe procedure di selezione e di valutazione sono, oggi, esempi evidenti di una sorta di dissipazione che nasce principalmente da una grave mancanza di attenzione nei confronti della storia. Persino certe forme di negazionismo sono, in ultima analisi, frutto di procedure caratterizzabili come grave dissipazione.
Analogamente, nella scuola, l’impatto con certe tecnologie rischia, oggi, di produrre stili poco congrui perché, ad esempio, si utilizzano materiali strutturati, anche complessi, ma con procedure d’uso semplicistiche, quasi rudimentali, e con obiettivi talmente elementari da risultare disarmanti.
In ogni forma di apprendimento il sintomo primo e più evidente della contrazione è dato da un disagio più o meno esteso nei processi di assimilazione. Parallelamente il primo e più chiaro segnale di un quadro tendente alla dissipazione è dato dalla incapacità di fruire degli apprendimenti passati a vantaggio degli apprendimenti successivi[6]. Contrazione e dissipazione mantengono i loro caratteri anche nell’agire organizzativo. E nell’uno e nell’altro caso è presente un alterato rapporto con la novità accompagnato (o forse preceduto) da una caduta della memoria.
Questo disimpegno nei confronti del compito della rimembranza, questa generosa concessione all’oblio trovano un terzo esito, anch’esso problematico, forse poco evidente, ma sicuramente carico di criticità, nella graduale, pervasiva e progressiva erosione della forza epifanica del linguaggio.
Le parole piegano e contorcono il loro significato e lo canalizzano verso territori dal basso profilo, là dove il fare predomina sull’agire e dove i dati soverchiano i significati. In questo modo, un po’ alla volta, la memoria diventa incapace di rimembrare ed essa medesima si lascia sopraffare dalla nostalgia.
È ricco l’elenco delle parole che si lasciano corrompere nel loro significato e che perciò potremmo qui invocare a sostegno di questa tesi. Ne indichiamo soltanto qualcuna, a mo’ di esempio. “La comunicazione viene condensata nello scambio informativo, l’esperienza perde il suo radicamento nella permanenza, la tradizione diventa peso, l’eredità si fa condizionamento, la storia diventa archeologia, la tradizione si riduce a folclore, la natura diventa oggetto di rapina, l’arte si consuma nel momento, lo spirito perde l’anelito alla universalità, l’uguale emargina il diseguale, l’uniforme vince sul distinto, la mano sinistra ignora quel che fa la mano destra, il grigio risucchia il bianco e il nero e l’omologazione rende tutti egualmente anonimi”[7].
Contrazione, dissipazione e perdita della forza epifanica del linguaggio trovano a volte una sintesi nella creazione di nuovi miti. Non più, forse, veri e propri racconti mitici, ma schegge mitiche a grande valenza seduttiva[8], o anche immagini e segmenti di narrazione condensati attorno ad una persona e ai suoi prodigi sociali (o politici). Anch’essi – questi miti – privi di radici e quindi destinati a processi di essiccamento rapido, appena viene ad esaurirsi il clamore del palcoscenico o il luccichio delle parole evocative. Manca, a loro, la forza della storia, il supporto di un progetto nato dalla fatica della ricerca e dalla pazienza della condivisione, la capacità lasciarsi pro-vocare da tutto ciò che è contesto e senso dell’uomo.
[1] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1876), seconda delle Considerazioni inattuali (1876) tr. it., Newton, Roma 1997.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] N. Paparella, L’agire didattico, Guida, Napoli 2012, cap.8.4.
[5] Aristotele, De Mem., 453 a 11 (tr. it. di R. Laurenti in I piccoli trattati naturali, Laterza, Bari 1971, p. 60).
[6] N. Paparella, Pedagogia dell’apprendimento, La Scuola, Brescia 1988, pp. 195 e ss.
[7] N. Paparella, Mediazione, medietà, mediocrità, in L. Martiniello, La didattica mediale nel postmoderno, Guida, Napoli 2011, pp. 9-10.
[8] N. Paparella, Mito e miti nella cultura contemporanea, in Pedagogia e vita, 4, 1993, La Scuola, Brescia 1993, pp. 43-65.
BIBLIOGRAFIA
Aristotele, De Mem., tr. it. di R. Laurenti in I piccoli trattati naturali, Laterza, Bari 1971.
Assman, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale (1999), il Mulino, Bologna 2002.
Halbwachs, I quadri sociali della memoria (1925), Ipermedium, Napoli 1997.
Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1876), seconda delleConsiderazioni inattuali (1876) tr. it., Newton, Roma 1997.
Paparella, Pedagogia dell’apprendimento, La Scuola, Brescia 1988.
Paparella, Mito e miti nella cultura contemporanea, in Pedagogia e vita, 4, 1993, La Scuola, Brescia 1993, pp. 43-65.
Paparella, Mediazione, medietà, mediocrità, in L. Martiniello, La didattica mediale nel postmoderno, Guida, Napoli 2011.
Paparella, L’agire didattico, Guida, Napoli 2012.