di Viviana Vinci
Muovendo dalla svolta epistemologica riabilitativa del sapere pratico – che, già a partire dagli ultimi decenni del Novecento, ha comportato un interesse crescente per il sapere pratico dell’insegnante e l’affermarsi di nuovi modelli di ricerca didattica di tipo descrittivo, sempre più orientati verso modalità osservative, induttive e analitiche secondo prospettive bottom-up che intendono superare i paradigmi prescrittivi e rendere più intelligibile ciò che gli insegnanti fanno realmente quando insegnano – Loredana Perla (2010) ha proposto una ri-teorizzazione dell’insegnamento a partire dalla prospettiva della Didattica dell’implicito.
L’ipotesi che sottende lo studio dell’implicito didattico è che l’insegnamento non sia un atto “ingegneristico”, basato sulla sola comunicazione didattica evidente, ma che consista nella orchestrazione sapiente di un insieme di saperi pratici radicati nei gesti professionali, negli sguardi, nelle routine, negli atti, nelle azioni, negli sguardi, nelle conoscenze tacite, nelle prese di decisioni inespresse, nelle credenze, nelle memorie e nell’affettività dell’insegnante: tutte dimensioni di una didattica nascosta, dell’oscuro, in cui i saperi impliciti maturati con l’esperienza, definiti saperi di “esistenza”, non accedono alla comprensione esplicita, ma restano nelle tracce di esperienze educative destinate all’oblio didattico. Si tratta del non-ancora-noto dell’agire professionale, ossia ciò che dell’insegnamento resta tacito – «un universo di affetti, tensioni, dilemmi, assunti di senso comune, credenze, epistemologie ingenue, ragionamenti abduttivi fortemente connessi con l’immagine di sé e con l’esistenza sociale» (Perla, 2010, pp. 7-8) – che non si individua immediatamente, ma è «nascosto nelle “pieghe” dell’ordinario, nei silenzi di classe, nel non-verbale, fra le righe del conversare in sala professori. L’implicito è l’inatteso, è l’enigma del non-detto, e si rivela solo a certe condizioni che sta soprattutto al ricercatore propiziare» (Ibidem, p. 10). Di questa didattica “nascosta” l’Autrice traccia i “confini”, costruire una prima topica, un orizzonte embrionale di comprensione, a partire da una prima mappatura delle fonti implicite del sapere del pratico: fra queste, l’opacità, la transformatività, la corporeità, l’aggregatività, la quotidianità e la performatività, ossia dimensioni meritevoli di esplorazione per ri-teorizzare l’insegnamento. Indagare gli impliciti delle pratiche didattiche significa squarciare il velo del mondo precategoriale dell’insegnamento, gettando luce sulle fonti di quella competenza magistrale che è il «sapere che distingue il pratico, che ne caratterizza l’azione, che ne esprime l’originalità – la maestria – e non solo la tecnica professionale» (p. 22).
L’implicito pratico degli insegnanti, che non è l’inconscio profondo e rimosso di matrice psicoanalitica, viene definito come «quella dimensione nascosta, ineffabile, oscura della pratica di insegnamento di cui il docente sa poco o perché non la conosce o perché non vuole rivelarla, a volte neanche a se stesso – ma che tuttavia innerva la pratica reale dall’interno ed è suscettibile di presa di coscienza, di consapevolizzazione, di “dicibilità”» (Perla, 2010, p. 31).
Grazie anche all’apporto delle ricerche scolastiche a orientamento clinico e quelle sulla cognizione informale dell’insegnante nella definizione della traiettoria della ricerca sugli impliciti dell’insegnamento, Perla delinea una prima topica degli impliciti dell’insegnare strutturata su due livelli di variabili:
- i “topoi organizzatori”, comprendenti le comunicazioni d’aula, le dinamiche che sottendono l’esercizio del potere, la memoria non-scritta di un’istituzione, le abitudini informali e le routine, le latenze dei gesti professionali;
- i “topoi personali”, comprendenti, fra tante variabili, le epistemologie ingenue, le parole non dette, le memorie biografiche, l’affettività e la corporeità, le credenze, i dilemmi e il disagio non dichiarato dell’insegnante (Perla, 2010b, p. 61).
L’esplorazione degli impliciti d’aula risulta utile per giungere a illuminare la competenza magistrale: la “grammatica implicita” della comunicazione, le dinamiche del potere (l’“ombra” del potere), la memoria non-scritta della Scuola, le routine del lavoro d’aula, le epistemologie ingenue dell’insegnamento, il disagio non dichiarato dall’insegnante e così via rappresentano tutte dimensioni del “saper-ci fare”, scrive Loredana Perla, le quali «testimoniano del valore gnoseologico della soggettività insegnante, destinata ad essere assunta a oggetto di studio per la sua capacità di validare l’intelligibilità di quanto fa e del perché lo fa» (2010, pp. 29-30).
La proposta avanzata è quella di “dar voce all’implicito” attraverso uno stile fenomenologico-clinico di ricerca e dispositivi metodologici adeguati alla complessità dell’oggetto e atti a far emergere la presa di coscienza e la presa di parola dell’insegnante, quali il dispositivo self-study model-5step e i relativi strumenti decostruttivi-esplicitativi, costruiti sapientemente anche affinché il ricercatore possa comprendere la natura complessa dell’agire magistrale dell’insegnante (Perla, 2011). L’esplicitazione dell’implicito, secondo l’autrice, non ha la sola finalità di accrescere la conoscenza sull’insegnamento da parte dei ricercatori, partendo da una fonte privilegiata di informazione qual è l’azione, ma anche quella di contribuire a migliorare, attraverso la “presa di coscienza riflessiva” e la “presa di parola” da parte dell’insegnante, le proprie pratiche. L’esplicitazione consente, infatti, di dare espressione nella ricerca alla ragion pratica degli insegnanti ma anche di indurre un’autoriflessività attraverso la ricerca che porti a migliorare lo stesso insegnamento attraverso una graduale consapevolezza del valore intellettuale, didattico ed etico del proprio agire.
La riscoperta della voce insegnante come “voce” prima narrante la cultura scolastica invita all’assunzione di stili di ricerca privi di inclinazioni “predatorie” e “scrutatorie”: il ruolo degli insegnanti è pienamente collaborativo. Gli insegnanti non sono fonti, né destinatari del lavoro del ricercatore ma sono partner attivi perché la relazione insegnante-ricercatore è «basata su un partenariato autentico (né opportunistico, né solo funzionale agli scopi della ricerca), si costruisce nel tempo lungo e implica un impegno alla costruzione di un sapere anche utile alla formazione dell’insegnante» (p. 104). All’interno di queste partnership, insegnanti e ricercatori condividono un compito comune: pur avendo motivazioni diverse rispetto al ricercatore – impegnato nella produzione di conoscenza generalizzabile e comunicabile alla comunità scientifica – l’insegnante è coinvolto pariteticamente nella scelta dei temi di indagine, dei criteri di validazione dei dati, nell’interpretazione degli esiti. L’analisi delle pratiche attraverso la ricerca collaborativa, orientata dal “duplice sguardo” dell’insegnante e del ricercatore, si configura non solo in termini descrittivi ma anche utili a migliorare le pratiche stesse. Entro il modello della ricerca collaborativa cambia, ovviamente, anche la postura del ricercatore che è chiamato ad interrogare costantemente il proprio mondo interiore di impliciti, a non compiere inferenze improprie sui dati emergenti dalla ricerca, a temperare l’intrusività del proprio Io, tutelando il più possibile la fedeltà alla “voce insegnante” nella ricerca e co-autorialità dell’interpretazione del dato.
Valorizzare il sapere del pratico e le variabili tacite dell’insegnamento significa non solo prendere le distanze da modelli prescrittivistici della didattica applicazionista in favore di modelli di ricerca empirici e deduttivi, ma anche introdurre, in modo innovativo, una ridefinizione delle funzioni della ricerca. Se la ricerca didattica vuole tentare di comprendere l’insegnamento deve, infatti, lasciar spazio alla “voce” magistrale, al punto di vista del pratico, alla “variabile-maestro”, un mondo troppo complesso ed “eccedente” per essere compreso dai modelli di esplicitazione di discendenza teorica e formale, e da categorie filosofiche a-priori o psicologiche di stampo sperimentalista. In tempi di valorizzazione di dimensioni soprattutto tecniche dell’insegnamento, la ri-scoperta della magistralità e la ricerca di un suo tratteggio formale a partire dall’analisi delle fenomenologie concrete dell’azione insegnante rappresenta anche un invito a rivedere (in direzioni più comprensive) i percorsi accademici per la formazione iniziale dei futuri insegnanti, in cui occorre scoprire e coltivare – attraverso percorsi di sviluppo insegnativo autoanalitici e riflessivi permanenti, che nutrano il Sé personale dell’insegnante oltre che quello tecnico-professionale – quell’eccellenza nascosta nell’implicito didattico.
BIBLIOGRAFIA
Perla L. (2008). L’incidenza dei saperi pre-riflessivi nella pratica didattica degli insegnanti novizi: prime risultanze di un’indagine sulle credenze attraverso l’uso delle metafore. Quaderni del Dipartimento di Scienze Pedagogiche e Didattiche, X(7), pp. 249-267.
Perla, L. (2010). Didattica dell’implicito. Ciò che l’insegnante non sa. Brescia: La Scuola.
Perla, L. (2011). L’eccellenza in cattedra. Dal saper insegnare alla conoscenza dell’insegnamento. Brescia: La Scuola.
Perla L. (2011). La ricerca didattica sugli impliciti d’aula. Opzioni epistemologiche. Giornale Italiano della Ricerca Educativa, 4(6), pp. 119-130.