Analisi delle pratiche educative

di Viviana Vinci

La ricerca didattica più recente focalizza sempre più la sua attenzione sull’analisi delle pratiche ordinarie della vita quotidiana della classe, nella convinzione, ormai matura, che esista una conoscenza insita nel lavoro dell’insegnante, un “sapere pratico”, perlopiù tacito e nascosto nelle variabili implicite dell’insegnare (Perla, 2010).

La cornice culturale ed epistemica in cui si inscrive l’analisi delle pratiche educative si è delineata sul finire degli anni Ottanta del Novecento attraverso una svolta paradigmatica ed epistemologica che ha visto l’affermarsi della epistemologia postmoderna, caratterizzata dalla consapevolezza di non poter descrivere, attraverso leggi universali, la realtà complessa nella quale viviamo, ma di poter disporre di conoscenze solo frammentarie e provvisorie. La complessità diviene un paradigma epistemico e regolativo generale, indicatore anche del sapere e dell’agire didattico, non riducibili del tutto ad alcuna teoria, per quanto rigorosa: il sapere pratico dell’insegnante (Perla, 2010) nasce e si sviluppa “sul campo”, durante l’azione, non è lineare né totalmente formalizzabile, non è acquisibile attraverso la sola formazione teorica ed è sfuggente rispetto ai tentativi di formalizzazione rispondenti a logiche di razionalità “forte” (si pensi alle tradizionali categorie di scientificità nell’epistemolgia moderna, quali, ad esempio, la neutralità, l’oggettività, l’operati­vizzabilità matematica, la generalizzabilità, la correlazione causale, la verificabilità empirica e la capacità di fornire spiegazioni e previsioni) (Sparti, 2002; Corbetta, 1999).

Il nuovo paradigma della ricerca rompe con la tradizione dominante fino agli anni Settanta, in cui gli studi didattici venivano condotti attraverso teorie (deduttive) come se l’insegnamento fosse ben noto, applicando teorie generali su come pensare l’insegnamento a casi particolari, secondo una logica di tipo top-down (Laneve, 2005, p. 6). Durante quasi tutto il Novecento la Didattica è stata considerata come la mera applicazione operativa di elaborazioni teoriche precise e rigorose, ma costruite all’esterno del contesto reale di insegnamento; teorie che, prescrittivamente, indicavano quale tipo di comportamento adottare e quale fosse la maniera corretta di pensare l’insegnamento, trascurando le dinamiche reali interne al contesto della classe e la produttività dell’agire didattico. La dipendenza storica della pedagogia dalla filosofia spiritualistico-neoidealistica e la considerazione della didattica «come parte operativa della Pedagogia, come disciplina incaricata di articolare i contenuti di una materia in maniera tale da renderli facilmente assimilabili dagli allievi» (Tarozzi, 2001, p. 164; Pazzaglia, Zani, 2001) hanno influito per decenni sulla considerazione della didattica e della pedagogia in chiave pratico-operativa, privandole del riconoscimento di scientificità e relegando gli insegnanti al ruolo di destinatari (Damiano, 1998) di saperi teorici costruiti lontano dalla loro professione, senza fornire loro alcun supporto, o strumento concreto, nella gestione delle “difficili” situazioni reali. A partire dagli anni Ottanta del Novecento, si è verificata una vera e propria rivoluzione negli studi educativi, sempre più orientati verso modalità osservative, induttive e analitiche. Diffusisi rapidamente in Europa e in America, secondo una linea di ricerca bottom-up, gli studi della Nuova Ricerca Didattica (Damiano, 2006) cercano di superare il paradigma prescrittivo dominante e di rendere più intelligibile ciò che gli insegnanti fanno realmente quando insegnano (Laneve, 2005) nella constatazione di quanto l’insegnamento si configuri come un sistema complesso, imprevedibile e irriducibile a standard teorici; la teoria, di conseguenza, nasce dall’analisi delle pratiche didattiche e dei processi di insegnamento-apprendimento in situazione, costruite intersoggettivamente nel contesto della classe.

Analizzare la pratica significa partire da una situazione educativa reale per ricavare e cercare di formalizzare in modelli teorici, a posteriori, per inferenza, senza giudizi o valutazioni, i saperi insiti nel processo di insegnamento-apprendimento, considerato come un processo interattivo situato (Altet, 2006).

La pratica di insegnamento, secondo una prospettiva costruttivista e interazionista, è costituita nello stesso tempo dalla maniera di fare specifico di una singola persona e dalle procedure utilizzate per realizzare un’attività in una situazione data; comprende molteplici dimensioni, non solo azioni osservabili, ma anche gesti, condotte, linguaggi, regole, obiettivi, strategie, ideologie, scelte, tutti fattori che, interagendo fra loro, permettono all’inse­gnante di adattarsi alla situazione e di gestire l’apprendimento degli allievi e le dinamiche di interazione insite nella classe (Altet, 2002). «La pratica non è la messa in opera di una mera razionalità, il risultato di una pianificazione prestabilita; si costruisce in situazione a partire da micro decisioni, da approssimazioni bricolage e adeguamenti» (Altet. 2003, p. 37). La pratica è un sapere-in-azione e idiografico, assimilabile all’artistry (Schon, 2006), quindi un connubio sapiente di maestria, riflessività e tecnica fondato sulla saggezza e l’abduzione (un “sapere saggio, proprio di colui che sa agire per il giusto calcolando esattamente i mezzi necessari per conseguire il suo fine”, Perla, 2013, p. 300).

I processi di generazione delle pratiche di insegnamento non sono, dunque, totalmente riconducibili né alla realizzazione di un piano, né al dichiarato e alle scelte degli insegnanti, né al tipo di formazione costruita, ma sono sempre il risultato di un intreccio di dimensioni che restano oscure in tutte le interazioni (Bru, Altet, Blanchard-Lville, 2004).

Il fine dell’analisi della pratica didattico-educativa è comprendere cosa gli insegnanti fanno realmente mentre insegnano e contribuire al miglioramento della stesse pratiche, con ricadute anche sulla formazione, attraverso la creazione di una postura riflessiva da parte degli insegnanti (Altet 2002; 2003a; 2003b; Blanchard-Laville, Fablet, 2000; Wittorski 2004; Bru et al., 2004). Seppur riconosciuta epistemologicamente come un contesto generativo di conoscenza, la pratica dell’insegnante non è, di per sé, il luogo in cui si sviluppa la professionalità docente: occorre, sottolinea Perla (2016), che vi sia una “messa-a-distanza” delle pratiche attraverso dispositivi specifici, tempi e spazi dedicati, in cui possa avvenire l’esplicitazione, l’analisi e la presa di coscienza delle proprie pratiche educative, degli impliciti e delle variabili nascoste che le sottendono, del proprio “pensiero” o Teacher’s Thought, attraverso dispositivi di lettura delle situazioni di apprendimento (Astolfi, 1990) e di formazione in servizio.

Il “precursore” teorico dell’analisi delle pratiche educative può essere considerato J. Dewey (1933, 1965), il primo a mettere in luce i tratti pre-concettuali della pratica (intesa come un “tutto indistinto” di attività regolate fra pensare implicito ed esplicito) – e l’importanza di esaminare le assunzioni implicite e inconsapevoli del pensiero al fine di renderle più esplicite; nella prospettiva deweyana, la pratica viene intesa come “l’insieme delle azioni grazie alle quali si esplicitano sempre più le operazioni del proprio pensare, al fine di giungere al controllo di quelle operazioni e alla conoscenza” (Perla, 2016, p. 48). Secondo Dewey qualsiasi teoria didattica, per quanto ben strutturata, trova il suo fondamento nella pratica: «le pratiche del­l’educazione forniscono i dati, gli argomenti, che costituiscono i “problemi” dell’indagine; esse sono l’unica fonte dei problemi fondamentali su cui si deve investigare» (Dewey, 1967, p. 24).

Gli studi che hanno valorizzato in modo nuovo la questione del carattere situato, contingente e singolare della conoscenza sono molteplici (da Schön a Wittgenstein, da Austin a Bourdieu, da Frega a Merleau-Ponty). Si ricordano, in ambito didattico, quelli di L. Shulman sul Pedagogical Content Knowledge (pck), ovvero la conoscenza pedagogica della materia, per cui per comprendere la conoscenza dell’insegnamento occorre analizzare «la capacità di un insegnante di trasformare il contenuto della materia che egli possiede in forme che sono potenti e educativamente calibrate alle variazioni di capacità da parte degli studenti» (Shulman, 1987).

I più importanti gruppi di analisi delle pratiche a livello internazionale sono il Reseau OPEN (Observatoire des pratiques d’enseignament) coordinato da Marguerite Altet, Marc Bru e Claudine Blanchard-Laville, costituito da una ventina di équipe di ricerca che si incontrano in seminari periodici; e l’ISATT – International Study Association on Teacher’s Thinking, nata come sezione interna dell’AERA (American Educational Research Association) e, nel 1983, divenuta associazione – costituita da oltre centosessanta membri in tutto il mondo, volta a promuovere la ricerca sugli insegnanti e sull’insegnamento, e a contribuire all’elaborazione teorica in questo campo. In Italia nell’ambito degli “studi sulle pratiche” si segnalano quelli di D. Demetrio sulle pratiche autobiografiche; di C. Laneve e E. Damiano sull’analisi delle pratiche educative; di G.P. Quaglino, sulle culture organizzative; di L. Mortari sulle pratiche del pensare riflessivo; di L. Perla sull’individuazione di dispositivi di analisi delle pratiche utilizzabili per la formazione insegnante (e non) e per la ricerca didattica.

 


 

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