a cura di Rosita Deluigi
Il verbo stare è quello che, a mio avviso, definisce meglio tutta la dinamicità dell’interazione educativa, in quanto descrive il senso di abitarla, di viverla pienamente, di assumere le posture più consone alla situazione. Dunque, sempre in trasformazione e cambiamento e, contemporaneamente, sempre orientati da un’intenzionalità che funge da orizzonte pedagogico. Significa fondamentalmente non sottrarsi alle sfide e assumersi consapevolmente il rischio di stare nell’incertezza, di vivere con una certa inquietudine la responsabilità dell’educare, cercando, il più possibile, di farla diventare corresponsabilità, non per avere “meno peso da supportare” ma per lanciare prospettive di autonomia e libertà.
In questo senso, la forte dinamicità e instabilità del verbo stare fa riferimento a un concetto di relazione descritta come l’interazione continua tra soggetti e mondo (o forse sarebbe meglio dire mondi, pensando soprattutto a quelli interiori, differenti).
L’agire pedagogico, connotato dall’intenzionalità e concretizzato attraverso una progettualità che si fa progettazione e progetto, supporta dinamiche di crescita e di cambiamento e necessita di una costruzione e di una ricostruzione continua. Intendo dire che una relazione educativa non è “data” una volta per tutte ma, anzi, è in manutenzione costante e richiede la partecipazione attiva di tutti i soggetti che ne fanno parte. A questo proposito saper stare in relazione per l’educatore significa saper vivere diversi livelli e, di seguito, ne indichiamo sinteticamente alcuni: il livello dell’équipe educativa – che vede il professionista confrontarsi con i suoi pari, con altri professionisti, con persone che supportano i fini della relazione in corso e che richiede consapevolezza, competenza e plasticità; il livello dei contesti – e quindi dei luoghi in cui si sviluppa l’intervento che sono parte attiva (in positivo e/o in negativo) delle strategie messe in atto; il livello del dialogo con i soggetti – tutti coloro a cui si rivolge il progetto educativo e per cui si lavora verso un innalzamento della qualità della vita.
Stare e so-stare nelle dimensioni sopra indicate (che custodiscono altri livelli al loro interno) richiede al professionista educativo di saper interagire con la complessità di sfere plurali e con variabili che non sono del tutto conosciute, lasciando aperta la porta all’inedito e all’imprevisto. Questa prospettiva non prevede un’azione immediata e circoscritta in un tempo esatto, ma necessita di un tempo medio-lungo in cui svilupparsi; è per tale ragione che ricollego alla capacità di stare e permanere nelle relazioni, la competenza dell’aver cura delle relazioni e delle persone che le vivono “in presa diretta” e le costruiscono. Una cura che accompagna l’essere umano in tutta la sua esistenza e che lo supporta nel suo sviluppo, nella costruzione di identità e nel divenire protagonista della propria esperienza vitale, anche grazie alle relazioni significative che si instaurano durante l’esistenza.
Aver cura di sé, degli altri, delle relazioni e del sé e degli altri nelle relazioni (sopratutto se educative) è compito di un educatore competente, che sa mettersi in gioco, alla ricerca dei fili da riallacciare per un livello di benessere che possa sospingere l’altro ad aver cura di sé e a interfacciarsi con le persone che costellano la sua vita. Apprendere insieme, scoprire nuove direzione percorribili, sperimentare i propri limiti, superare delle difficoltà, conduce l’uomo a misurarsi con sé e con gli altri, alla ricerca di una forma, di un senso e di un significato del proprio esistere (talvolta anche r-esistere) che vanno sempre riscoperti e riattivati.
Stare nella relazione, significa anche accorgersi degli altri, uscire dal proprio sé, costruire e rafforzare dinamiche d’integrazione e di scambio, favorire dialoghi che conducano a progettualità comuni; ciò può essere facilitato da un presenza e da una permanenza educativa volta a promuovere esperienze di accoglienza e di fiducia. Quelle esperienze (luoghi-tempi-relazioni) che l’educatore può sollecitare, proporre e poi accompagnare verso l’autonomia e, ove possibile, l’auto-organizzazione.
Permanere come agenti di cambiamento è, senza dubbio, faticoso ma, è proprio in questo modo che l’educazione diventa autentica, in un intreccio di movimenti in cui conoscere e ri-conoscere sé stessi e gli altri.
Progettare la relazione educativa, allora, non significa solo avviarla e “lanciarla”, ma anche supportarla e accompagnarla nel tempo, affinché generi intenzionalità e progettualità nelle stesse persone a cui ci rivolgiamo e che sono in cerca (talvolta anche in modo inconsapevole) di maggiore benessere. Avere cura dei processi e dei percorsi educativi richiede una presenza costante che sappia leggere, ascoltare e interpretare i segnali dei contesti e che lavori verso la costruzione di capitali umani, relazionali e sociali che non disperdano le peculiarità (bisogni/risorse) del singolo e, allo stesso tempo, le interconnettano con la specificità dei contesti (locali/di riferimento) in quanto potenzialmente luoghi di relazione da costruire, ristrutturare e di cui aver cura.
BIBLIOGRAFIA
Bertolini, L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, La Nuova Italia, Firenze 1988.
Boffo (a cura di), La cura in pedagogia, Clueb, Bologna 2006.
Mortari, La pratica dell’aver cura, Mondadori, Milano 2006.
Palmieri, La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare, Franco Angeli, Milano 2000.
Palmieri, G. Prada, Non di sola relazione. Per una cura del processo educativo, Mimesis, Milano 2008.