Professionista imperfetto

a cura di Rosita Deluigi

 

Descrivere l’educatore come un professionista imperfetto significa tratteggiare questo ruolo come non finito ma in continua ricerca e apprendimento. Ciò è dovuto al fatto che l’educatore opera in contesti sociali sempre più eterogenei ed è necessario che non assuma posizioni statiche e definitive ma, piuttosto, si metta in dialogo con la necessità di aggiornarsi, di approfondire questioni ed emergenze sociali, in una persistente disponibilità ad apprendere che lo caratterizza in modo plastico. Questo non vuol dire che il professionista sociale non abbia dei punti di riferimento: gli orientamenti pedagogici diventano essenziali per avere una visione ampia e una prospettiva da condividere con i soggetti con cui si interfaccia.

A ciò si ricollega la necessita di coltivare attitudini e competenze e di prospettare percorsi e interventi che sappiano interconnettere e alimentare reciprocamente la teoria pedagogica e l’agire educativo. Da un lato, infatti, non possiamo trascurare il bisogno di avere fondamenti e linguaggi comuni con cui intendersi anche nella pratica e, dall’altro, è necessario ricostruire, proprio a partire dall’esperienza, le modalità di azione e le strategie efficaci o fallimentari.

L’operatore sociale deve diventare un pensatore sociale per non delimitare e limitare l’azione alla mera esecuzione ma per far sì che divenga dinamica e di relazione. Se ciò avviene, seppur in modo faticoso, dovendo fronteggiare battute di arresto e soste riflessive, allora potremo meglio delineare una professionalità in crescita, in grado di confrontarsi con le complessità insite nella singola persona, così come nel piccolo gruppo, nelle famiglie e nelle comunità, nei quartieri e nelle grandi città. Sappiamo, infatti, che i campi e le situazioni in cui il lavoro educativo si colloca sono multiformi e richiedono al professionista, a partire dalle competenze generali e specifiche acquisite durante la formazione, di sapersi collocare e ricollocare nelle pieghe specifiche dell’esperienza, prestando ascolto e attenzione ai soggetti che abitano i luoghi dell’agire educativo.

Gli orizzonti educativi sono molto ampli e la “non finitudine” dell’educatore determina un’ulteriore incertezza da fronteggiare e, allo stesso tempo, una nuova sfida e apertura alla complessità. Incertezza di fronte al fatto che lavorare con le persone e per le persone ci porta, inevitabilmente, a mettere in gioco e a dover gestire parti della nostra personalità e, allo stesso tempo, a “tenere” il ruolo professionale: queste dimensioni, visceralmente interconnesse, non sono scindibili in modo esatto e misurabile, ma richiedono una capacità d’interazione e integrazione del proprio sé che mette continuamente l’educatore alla prova e alla ricerca di una consistenza capace di farsi accoglienza, comprensione e prossimità. Soprattutto di fronte alla libertà dei soggetti e agli itinerari scelti in autonomia, al di là delle progettazioni immaginate e strutturate.

Sfida perché il ruolo educativo necessita di professionisti in grado di permanere nelle situazioni di criticità e di problematicità, per riscoprire le risorse presenti e quelle che possono essere attivate in una prospettiva di ri-costruzione di un tessuto sociale troppo spesso logorato da meccanismi competitivi di profitto e di individualità. La riscoperta del potenziale e dell’empowerment che risiede (anche in modo sommerso e latente) in comunità disaggregate può essere proprio uno dei primi compiti che il professionista educativo deve fronteggiare, soprattutto volgendo lo sguardo alla progettazione partecipata, allo stile cooperativo, al consolidamento di ipotesi di lavoro congiunte.

È attraverso la riflessività che il professionista riesce a rimanere imperfetto e per questo, paradossalmente, maggiormente efficace, perché è in grado di interrogarsi continuamente, di proporre delle inferenze sulla pratica, di analizzare ipotesi teoriche e di metterle al servizio delle persone con cui sta lavorando. La riflessività lo sostiene nel suo continuo essere in ricerca di ipotesi volte ad accompagnare, sostenere, orientare i soggetti nel raggiungimento del maggior grado di benessere tra libertà, autonomia e responsabilità.

Più questo processo è condiviso a livello collettivo e, dunque, investe più soggetti e interazioni, più gli esiti andranno verso una vera “presa in carico” da parte della comunità, nell’ottica del “we care”: Questioni critiche e potenzialità non riguardano più il singolo privato problema ma diventano materia di riflessione e strategia di azione da parte del sistema e della comunità educante che si può promuovere e consolidare nel tempo.

L’imperfezione, allora, può essere vista come virtù educativa, da coltivare sempre, come stile di riflessione/azione, come modus operandi che qualifica la necessità di r-accogliere il contributo degli altri (professionisti e soggetti) e di co-costruire interventi educativi situati.

 


 

BIBLIOGRAFIA

R. Deluigi, Animare per educare. Come crescere nella partecipazione sociale, SEI, Torino 2010.
L. Milani, Collettiva-Mente. Competenze e pratica per le équipe educative, SEI, Torino 2013.
L. Milani, Competenza pedagogica e progettualità educativa, La Scuola, Brescia 2000.
D. A. Schön, Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Dedalo, Bari 1983.
S. Tramma, L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Carocci, Roma 2003