a cura di Stefano Bonometti
Un knotworking[1] è costituito da un insieme di persone che convergono e condividono una traiettoria spazio-temporale declinata in un susseguirsi di compiti orientati alla combinazione di risorse e artefatti. Tali situazioni sono fragili perché i soggetti si basano su una comprensione intersoggettiva che si realizza in un tempo molto breve e su un controllo delle azioni che non si fonda su una struttura di potere gerarchica e formalizzata, ma distribuita e diffusa fra tutti i membri e su un coordinamento interno delle azioni svolto dagli attori. Nelle dinamiche relazionali di questa particolare forma di aggregazione si attua uno scambio di informazioni, un confronto sulle pratiche, una negoziazione sulle prospettive da conseguire. L’interesse comune, che converge l’attenzione delle persone coinvolte, innesca un’interazione che promuove nuovi saperi e nuove competenze. Partecipare alle attività che si sviluppano all’interno di un knotworking non pregiudica l’appartenenza ad altri gruppi, anzi proprio in virtù di tale frequentazione si apre la possibilità di condividere problemi e risorse al fine di acquisire nuove prospettive e modelli operativi.
Un esempio emerge dagli studi svolti, nell’ambito sanitario in Finlandia, dal gruppo di ricerca del Center for Activity Theory and Developmental Work Research dell’Università di Helsinki. In particolare, l’organizzazione sanitaria per la cura ospedaliera e territoriale si è posta l’obiettivo di «acquisire un nuovo modo di lavorare nel quale i malati, i familiari e i professionisti provenienti da differenti organizzazioni che svolgono ruoli di caregiver possono pianificare e monitorare in modo collaborativo le traiettorie di cura del paziente, assumendosi le responsabilità della gestione del processo»[2].
La necessità di delineare modalità collaborative estese fra i diversi soggetti che entrano a far parte del sistema di attività di cura è rivolta prevalentemente a pazienti con multipatologie croniche, che prevedono sia periodi di lungo degenze sia periodi riabilitativi con il supporto di esperti disciplinari differenti. Ad un primo livello di osservazione, i soggetti coinvolti nella cura in ambito ospedaliero, territoriale e domestico, strutturano una rete di professionisti che forniscono il loro contributo indipendentemente da un rapporto di interscambio. Ad un secondo livello, essi si assumono la responsabilità dell’intero processo di cura, definendo un accordo formalizzato, denominato “care agreement”. Con questo accordo vengono focalizzate quattro modalità di interconnessione: a) il medico personale del paziente, un professionista nel centro di cura locale, è designato come il coordinatore incaricato del network del paziente e dei collegamenti inter-istituzionali fra le modalità di cura necessarie al paziente (oltrepassando i “confini” settoriali); b) nel caso in cui un persona sia ricoverata in ospedale per un periodo di degenza, l’unità operativa che ha in carico il paziente, redige un “care agreement” il quale deve includere il piano per la cura del paziente e la divisione del lavoro fra i vari fornitori di cure. La bozza d’accordo deve essere portata al paziente o ai suoi familiari e spedita al centro di cura locale designato del paziente per una esame accurato; c) qualora le parti lo ritengano necessario, avviano una negoziazione al fine di formulare un “care agreement” condiviso; d) successivamente prende avvio il processo di cura sostenuto continuamente da un feedback relativo all’efficacia dei processi, tramite una comunicazione, a tutti i membri del network, degli interventi di cura relativi al paziente, svolti dai singoli medici e fatti pervenire senza ritardi alle parti del network. In particolare, nel caso di aggiornamenti e cambiamenti in ordine alla diagnosi, terapia o planning delle cure tale passaggio di comunicazione deve essere tempestivo. A ciò si affianca una ricorrente attività di confronto e pianificazione fra i componenti del network stesso.
Nella figura successiva (vedi Tav. n. 1) viene schematizzato il modello concettuale della pratica di “care agreement”.
L’insieme dei vari soggetti implicati nella cura di un malato, compreso il paziente stesso, costituiscono un intreccio di relazioni, una trama nella quale viene negoziato, raggiunto e sostenuto un accordo che promuove un atteggiamento di responsabilità diffusa fra ogni ruolo nell’intero periodo di cura; mantiene le persone in collegamento e le aggrega ripetutamente in base alle necessità dell’evoluzione della patologia e della terapia; inoltre costituisce un ambiente di apprendimento continuo.
Il terzo livello di analisi, infine, mette in luce il processo di apprendimento che si struttura fra i soggetti coinvolti nel processo di cura. Le persone, provenienti da aree disciplinari diverse, con esperienze plurime, con linguaggi specifici, mettono in atto, in riferimento al “care agreement” sottoscritto, un processo virtuoso di confronto sulle problematiche emergenti (inner contradictions), in cui la responsabilità condivisa sul raggiungimento dei risultati (outcome) alimenta la volontà di perseguire e migliorare l’attività intrapresa.
L’esempio riporta la possibilità di configurare nuovi modelli di lavoro di tipo partecipativo che emergono dalla disponibilità di superare i confini del proprio ambito professionale. Sono contesti di relazione prevalentemente non gerarchici, che procedono, tramite una rapida dinamica sinusoidale, ampliando le conoscenze e le abilità fra i partecipanti (knotworking).
Le modalità d’interazione orizzontale favoriscono la configurazione di nuovi saperi e richiedono una particolare attenzione al piano della comunicazione. Il processo comunicativo è riconosciuto come strumento complesso tramite il quale, ciascuna persona può realmente costruire un dialogo per contribuire allo sviluppo dei modelli di lavoro.
[1] Tratto da Bonometti S. (2008), Apprendere nei contesti di lavoro, prospettive pedagogiche per la consulenza formativa,-EUM, Macerata.
[2] Y. Engeström, The new generation of expertise: seven theses, in H. Rainbird, A. Fuller, A. Munro, Workplace learning in context, London and New York, Routledge, 2004, pp. 145-165, p. 159.