Società educativa

a cura di Lucia Ariemma

Una società, una comunità –così come un gruppo- non nasce da sola: c’è bisogno di un processo educativo ed autoeducativo che coinvolga tutti e ciascuno, che preveda cioè l’impegno costante e continuo di ogni membro della comunità, ma anche un impegno politico forte: si fa riferimento, dunque, a politiche della formazione e dell’educazione che, pur partendo dalla scuola come istituzione educativa e formativa imprescindibile, facciano appello a tutte le agenzie educative presenti sul territorio, chiamandole ad una progettazione e ad una azione formativa sinergica, permanente, così da rendere ogni comunità in grado di educare se stessa e i suoi membri.

Una tale idea –per utilizzare il titolo di un celebre saggio di Raffaele Laporta- di autoeducazione delle comunità (Laporta, 1979) affonda le sue radici nella cultura pedagogica degli anni Sessanta/Settanta, quando si diffonde, da un lato, la convinzione che la pedagogia non sia una scienza ‘consacrata’ ai bambini, perché il processo di formazione dura tutto il corso della vita; dall’altro lato, emerge il concetto di cité éducative, che appare per la prima volta nel Rapporto Faure sulle strategie dell’educazione, tradotto in Italia nel 1973, nel quale si promuove l’idea di una comunità che sia in grado di educare se stessa attraverso la presa in carico dell’educazione e della formazione dei suoi membri: un’educazione ed una formazione costantemente al passo con i tempi, che, dunque, preveda una costante trasformazione ed un intenso riadattamento alle nuove e sempre rinnovate condizioni ambientali, sociali, culturali, economiche, politiche, tecniche e tecnologiche.

Pertanto, «se il processo educativo è continuo, cioè si sviluppa lungo tutto l’arco dell’esistenza umana, anche se attraversa alcune fasi evolutive che vanno privilegiate, vuol dire che la domanda di formazione, lo si riconosca o no, non ha limiti di età e quindi esige risposte di formazione adeguate per ciascuna età: dall’infanzia alla vecchiaia. Cade, a questo punto, la discriminazione tra educazione scolastica ed istruzione extrascolastica degli adulti perché, facendo della seconda la continuazione della prima, non si fa altro che perpetuare l’equivoco del modello scolastico concepito come il centro gravitazionale e il prototipo di riferimento di ogni innovazione educativa» (Orefice, 1978, p. 62). Da quanto affermato, dunque, risulta evidente che il processo di formazione e di istruzione lungo il corso della vita può considerarsi come un quadro di riferimento che impone, tuttavia, una rideterminazione sia delle politiche per la formazione (anche quelle legate ai contesto formativi istituzionali), sia delle pratiche formative dedicate agli adulti.

Quella delineata nel Rapporto Faure è un’idea nuova ed innovativa che, all’epoca, aprì un ventaglio di discussioni molto ampio, e molte furono le occasioni create per discutere della possibilità di strutturare, nella prospettiva di lifelong e lifewide learning, una comunità educativa: basti citare, a titolo di esempio, i Convegni organizzati a Firenze nel 1978 o a Napoli nel 1979, durante i quali si cercò di dialogare con tutti i soggetti coinvolti nel processo formativo. «Il ragionamento, da cui scaturiva l’idea della comunità educativa in quegli anni, era semplice: un territorio che diventa troppo complesso in termini di continua crescita di presenza umana, di infrastrutture, nonché in termini di domanda di beni di consumo in campo economico, sociale e culturale, difficilmente riuscirà a costituirsi come comunità, come un centro, cioè, che riesca ad interrogarsi, a riconoscere i propri problemi, ad identificare i propri bisogni ed obiettivi di crescita riguardanti giovani ed adulti, uomini e donne di diversi orientamenti e condizioni» (Sarracino, 2006, p. 15).

Si tratta, naturalmente, di una prospettiva formativa fortemente connotata di utopia, come esplicitamente ammesso dagli stessi autori del Rapporto: «Utopia? Sì, nella misura in cui un pizzico di utopia è presente in ogni iniziativa che vuol trasformare i dati di fondo del destino dell’uomo; sì ancora, nel senso che non potrebbe realizzarsi da un giorno all’altro, anche se apparissero in un prossimo avvenire uomini decisi ad attuarla, ed anche se si potessero mettere insieme i mezzi necessari. Oggi come oggi non è poi tanto paradossale il dire che non vi è una buona strategia senza previsione utopistica, nel senso che ogni visione a tempo lungo può essere tacciata di utopia. E tuttavia rimane vero che bisogna guardare lontano se si vuole agire con determinazione e saggezza». Anzi, continua il Rapporto, «quanto più un filosofo introduce nella sua speculazione una dimensione di utopia, tanto più insisterà sulla funzione liberatrice della formazione»: anzi, continua il Rapporto, «quanto più un filosofo introduce nella sua speculazione una dimensione di utopia, tanto più insisterà sulla funzione liberatrice della formazione» (Faure, 1973, p. 270).

Naturalmente, come si è avuto modo di accennare, l’idea di comunità educativa può trovare una sua realizzazione solo se vede attuata una efficace politica di educazione permanente, da una parte, e se si concretizza la partecipazione attiva di tutte le istituzioni ed i soggetti appartenenti ad una data comunità, dall’altra, nella prospettiva del Sistema Formativo Integrato, un sistema formativo, cioè, in cui tutte le istituzioni formative presenti sul territorio (formali, non formali ed informali) realizzino una rete di interazioni a diversi livelli: interistituzionale (fra tutte le istituzioni coinvolte nel processo formativo); intercategoriale (tra tutti i soggetti coinvolti nelle pratiche della formazione: docenti, educatori, operatori educativi e culturali, etc.); interdisciplinare (tra discipline e settori propri di un ambito disciplinare, che concorrano, a livello integrato, alla identificazione di problemi ed alla loro risoluzione in maniera negoziata e condivisa); interoperativo (relativo all’utilizzo di strumenti e metodologie adeguati, finalizzati al rafforzamento delle relazioni).

Lo stesso Rapporto Faure, infatti, afferma: «Tutti i gruppi, associazioni, sindacati, comunità locali, corpi intermedi, devono assumersi la responsabilità dell’educazione, anziché delegare i poteri ad una struttura unica, verticale e gerarchica come corpo separato rispetto alla società. […] Una società che riservasse siffatto ruolo all’educazione e la collocasse a tale livello, meriterebbe un nome preciso: comunità educante. Il suo avvento costituirà il punto di arrivo di un processo di intima compenetrazione tra scuola e tessuto sociale, politico ed economico, in famiglia e nella vita del cittadino» (Faure 1973, pp. 265-269). La comunità educante viene dunque vista, scrive P. Orefice, come «superamento della chiusura della prospettiva educative dentro le mura dell’istituzione scolastica, la quale –secondo una tesi espressa poi in termini radicali dai descolarizzatori, per molti aspetti concordi con la contestazione giovanile del ‘68- finisce con l’approfondire la separazione della scuola dalle trasformazioni più progressive della società, alimentandone invece il carattere repressivo e conservativo. È evidente allora che con il ribaltare i termini della questione, investendo non solo la scuola ma l’intera società del progetto educativo, la scuola esce dallo splendido isolamento che la sclerotizza e, cosa più importante, è l’organizzazione sociale stessa che si fa educativa». Pertanto, il concetto di «comunità educante» entra di diritto nel dibattito sull’educazione permanente. Infatti, lo studioso continua affermando che, una volta liberato il concetto di «comunità educante» da una serie di ambiguità e di astrattezze, «acquisita l’idea regolativa di “comunità sociale che si educa”, l’interesse era tutto teso a passare alla sua traduzione in termini operativi, in modo che se ne precisassero nello stesso tempo le connotazioni teoriche, le strategie politico-istituzionali e le metodologie di intervento. […] Del resto, lo stesso imporsi del termine “territorio”, al di là delle letture riduttive e di moda che se ne sono fatte e se ne fanno ancora, sta a significare come l’interesse dominante nello studio dell’educazione sociale fosse nella direzione dei problemi concreti derivanti dal vivere di una comunità umana in un luogo determinato» (Orefice, 1982, pp. 7-9).


 

BIBLIOGRAFIA

Faure E. et alii (1973), Rapporto sulle strategie dell’educazione, tr. it., Roma: Armando.
Laporta R. (1979), L’autoeducazione delle comunità, Firenze: La Nuova Italia.
Orefice P. (1978), Educazione e territorio, Firenze: La Nuova Italia.
Orefice P (1982), Le stagioni dell’educazione permanente: dall’utopia della cité éducative ai modelli territoriali di formazione, in Orefice P., Sarracino V. (eds), La formazione degli operatori locali. Un’esperienza di didattica territoriale, Napoli: Loffredo.
Sarracino V. (2006), Ambiente Territorio Educazione. L’utopia della comunità educativa oggi, in Strollo M.R. (ed), Ambiente, cittadinanza, legalità. Sfide educative per la comunità di domani, Milano: Franco Angeli.