Edgar Morin

a cura di Lucia Ariemma

Edgar Morin (Parigi, 1921), cognome di battaglia scelto durante la Resistenza, poi preferito all’originario Nahoum, è un autore eclettico –sociologo, filosofo, politico- che, nel corso di un sessantennio, dagli anni Cinquanta in poi, è andato via via occupandosi, con metodo interdisciplinare, di temi riguardanti l’uomo e la sua presenza sul Pianeta, la natura sempre più aggredita e defraudata, la revisione della struttura del sapere e la relativa urgenza di una sua riconsiderazione conoscitiva che superi il disciplinarismo e la disgiunzione tra le parti; la difesa della forma di governo prescelta dagli uomini per meglio comunicare e incontrarsi tra loro, cioè la democrazia, e le misure per limitare le lacune della stessa.

Morin si trova a vivere in un periodo culturalmente ed intellettualmente particolarmente vivo ed attivo, di ristrutturazione e riorganizzazione delle conoscenze: la teoria sistemica, i nuovi approcci alle scienze della mente, le teorie costruttivisti che dell’apprendimento richiedono una riforma del pensiero che consenta di accedere ad una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi presente nella nostra epoca e che sia capace di educare gli educatori (i quali, a loro volta, siano in grado di educare i soggetti in formazione) ad un pensiero e ad una conoscenza complessa: «Occorrerà vedere se esiste una modalità di pensiero o un metodo capace di raccogliere la sfida della complessità. Non dovremo riprendere l’ambizione del pensiero semplice, che era quello di controllare e dominare il reale, dobbiamo esercitarci a un pensiero capace di operare con il reale, di dialogare con il reale, di negoziare con lui. Bisogna dissipare due illusioni che distolgono le mentio dal pensiero complesso. La prima consiste nel credere che la complessità conduca all’eliminazione della semplicità. Certo la complessità compare laddove il pensiero semplificante fallisce, ma comprende al suo interno tutto ciò che mette ordine, chiarezza, distinzione, precisione nella conoscenza. Mentre il pensiero disintegra la complessità del reale, il pensiero complesso assimila il più possibile i modi semplificanti di pensare, ma rifiuta le conseguenze mutilanti, riduttive, unidimensionalizzanti e alla fine accecanti di una semplificazione che si considera il riflesso di quanto c’è nella realtà. La seconda illusione è quella di confondere complessità e completezza. […] Il pensiero complesso aspira alla conoscenza multidimensionale, ma è consapevole in partenza dell’impossibilità della conoscenza completa: uno degli assiomi della complessità è l’impossibilità, anche teorica, del’onniscienza. Il pensiero complesso fa proprio il motto di Adorno: “La totalità è la non verità”, motto che comporta il riconoscimento di un principio di incompletezza e di incertezza. Pertanto il pensiero complesso è animato da una tensione permanente fra l’aspirazione a un sapere non parcellizzato, non settoriale, non riduttivo e dal riconoscimento dell’incompiutezza e dell’incompletezza di ogni conoscenza». (Morin, 1993, pp. 2-3).

La complessità, spiega Morin, «è un tessuto (complexus: ciò che è tessuto insieme) di costituenti eterogenei inseparabilmente associati: pone il paradosso dell’uno e del molteplice. […] Ma allora la complessità si presenta con i lineamenti inquietanti dell’accozzaglia, dell’inestricabile, del disordine, dell’ambiguità, dell’incertezza … Di qui la necessità, per la conoscenza, di mettere ordine nei fenomeni respingendo il disordine, di allontanare l’incerto, vale a dire di selezionare gli elementi di ordine e di certezza, di depurare dall’ambiguità, di chiarire, distinguere, gerarchizzare … Ma simili operazioni, necessarie ai fini dell’intellegibilità, rischiano di rendere ciechi se si eliminano gli altri caratteri del complexus» (Morin, 1993, p. 10). Il complexus, ossia, la trama della complessità, il “tessuto”, «deriva da fili differenti e diventa uno. Tutte le varie complessità si intrecciano, dunque, e si tessono insieme, per formare l’unità della complessità; ma l’unità del complexus non viene con ciò eliminata dalla varietà e dalla diversità delle complessità che l’hanno tessuto» (Morin, 1995, p. 56).

Secondo Morin, il rischio è che, in una società quale quella attuale, in continuo sviluppo e sottoposta a continui cambiamenti, il rischio sa quello di una conoscenza iperspecializzata, ma che, perdendo di vista il compkexus, ossia il suo tessuto d’insieme, diventi ipersettorializzata e parcellizzata. Al contrario, egli afferma, «la conoscenza è […] proprio un fenomeno multidimensionale, nel senso che essa è, inseparabilmente, fisica, biologica, cerebrale, mentale, psicologica, culturale, sociale. […] La conoscenza non è insulare, ma peninsulare e, per conoscerla, è necessario collegarla al continente di cui fa parte. L’atto di conoscenza è a un tempo biologico, cerebrale, spirituale, logico, linguistico, culturale, sociale, storico e la conoscenza quindi non può esser dissociata dalla vita umana e dalla relazione sociale» (Morin, 1989, pp. 15 ss.). In questa dimensione, allora, la riforma del pensiero va nella direzione di educare un pensiero che sia in grado di « pensare senza mai chiudere i concetti , di spezzare le sfere chiuse, di ristabilire le articolazioni fra ciò che è disgiunto, di sforzarci di comprendere la multi-dimensionalità, di pensare con la singolarità, con la località, la temporalità, di non di-menticare mai le totalità integratrici» (Morin, 1995, p. 35).

Pertanto, il pensiero complesso è aperto, multidimensionale, costruttivo, problematico, non concluso, in grado di fare i conti con l’incertezza e la pluralità dell’esperienza, con il variare dei modelli simbolici culturali; un modello creativo, multidirezionale, antidogmatico.


 

BIBLIOGRAFIA

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