Costrutto di competenza

A cura di  Luciano Galliani[1]

 

Nella ricerca psico-pedagogica la competenza non è solo un insieme di conoscenze e capacità astratte, ma anche orchestrazione dei piagetiani “schemi di azione” (Vergnaud 1999) integrati in abiti in grado di “generare un’infinità di pratiche adattate a situazioni sempre rinnovate” (Bourdieu 1972) e soprattutto mobilitazione e combinazione di “un insieme pertinente di risorse” interne (conoscenze, saper fare, qualità, ecc.) per gestire una famiglia di situazioni professionali (definita da attività-chiave) che rispondono ad esigenze esterne e conducono a produrre risultati (prodotti, servizi) atti a soddisfare criteri specifici di prestazione per i destinatari (Le Boterf, 2000). È questa una prima definizione complessa del costrutto competenza che ci dice come non si possono valutare prestazioni, risultato fenomenico probabilistico e indiziario delle sottese invisibili competenze, senza richiamare un coerente modello noumenico di descrizione ed identificazione delle competenze.

Storicamente, infatti, si sono evoluti a partire dagli anni 70 del ’900, e poi sviluppati con particolare incidenza nei sistemi formativi e lavorativi durante l’ultimo ventennio, tre modelli (Consoli 2002) che possiamo, con una nostra scelta semantica, definire come:

  1. modello psico-umanistico delle competenze individuali;
  2. modello organizzativo-manageriale delle competenze distintive;
  3. modello socio-culturale delle competenze distribuite.

 

FIG.9
Modello psico-umanistico delle competenze individuali

Il primo modello – nato con l’articolo di Mc Clelland, famoso psicologo americano della personalità e della valutazione, “Misurare la Competenza piuttosto che l’Intelligenza” (1973) e sviluppatosi con Boyatzis (1982) e Spencer & Spencer (1993) nell’attività consulenziale della Mc Ber & Co. – fortemente analitico, con un approccio bottom-up centrato sulla persona e le sue risorse interne (profonde: tratti, motivazioni, idea di sé, valori e emergenti nella nota raffigurazione dell’iceberg: conoscenze e abilità) ed esterne (sociali, professionali, aziendali) che possono portare a prestazioni efficaci in un determinato ruolo (job effective performance). La competenza risulta così “una caratteristica individuale intrinseca”, che implica situazioni complesse in divenire, in cui si prendono iniziative e si fa fronte agli eventi. È una posizione che delinea il livello universale o meta della competenza centrata sulla persona (Bertagna, 2004), che però porta anche ad utilizzare prove criteriali e tecniche di competency modeling per identificare, formare e sviluppare competenze (Gerli 2002) a partire dall’analisi dei best performers. 

Il secondo modello – nato nell’ambito del pensiero manageriale con Prahalad e Hamel (1990) e sviluppatosi anche in Italia con Camuffo (1996) – utilizza un approccio top-down razionale-strategico-sistemico, focalizzato sulle competenze distintive o core competences di una organizzazione. È un sapere collettivo, costituito da un insieme di skills e tecnologie, di collaborazioni e di interazioni interne ed esterne, di cultura d’impresa, la cui gestione rende un vantaggio competitivo. Il valore aggiunto dell’organizzazione è affidato alle risorse intangibili, in primis la “risorsa umana”, intesa come “capacità di gestione della complessità e quindi della varianza implicita nella complessità, capacità di giudizio e decisione, responsabilità” (Consoli, 2002).

FIG.10
Modello organizzativo-manageriale delle competenze distintive. Fonte: adattamento da Camuffo, 1998.

 

 È un modello che delinea il livello pragmatico della competenza, indagato con un processo di identificazione delle competenza, che va dall’organizzazione all’individuo (Camuffo 1998), attraverso le fasi del benchmarking strategico, dell’analisi delle mansioni e dei compiti lavorativi fino ad attività-chiave aggregate per competenze e per profili professionali. Le competenze, i comportamenti, le prestazioni caratterizzanti le varie figure professionali (Buttignon 1996), vanno così, a costituire le competenze individuali richieste, secondo esigenze organizzative e predittivo-tecnologiche e non psicologico-individuali.

 

Il terzo modello – prodotto di sintesi di almeno tre filoni di ricerca: uno psicologico neovygotskijano sui “sistemi di azione” (Leont’ev 1977, Cole 1996; Engestrom 1993; Scribner 1984); uno socio-pedagogico sui “saperi operativi” o “savoir d’action” (Charue-Duboc 1995; Barbier 1996) e uno fenomenologico-organizzativo sulla “pratica professionale” e sulla “riflessività degli attori (Argyris & Schon 1978; Schon 1993; Hatchuel & Weil 1995) – utilizza un approccio sicuramente innovativo che non parte dall’individuo (bottom-up) né dall’organizzazione (top-down) ma dal “contesto di azione” costituito da una “rete di attori” per scoprire come “l’attività cognitiva è distribuita tra le persone, tra le persone e gli artefatti, e nel tempo (Consoli 1995).

 

FIG.11
Modello socio-culturale delle competenze distribuite

 

 

La competenza è “pensiero pratico in azione” (Scribner 1984), situato in un ambiente sociale organizzato (comunità di lavoro), costitutivo con le sue regole e le sue tecnologie dell’attività stessa, che si sviluppa come expertise attraverso non solo “la riflessione nel corso dell’azione”, ma “la riflessione collaborativa sulla riflessione nel corso dell’azione (Schön 1993).

Il confronto, la negoziazione, la narrazione sono pratiche comunitarie per ridurre lo scarto tra attività e descrizione, tra esperienza e ricerca di senso, per cui il “professionista competente” è quello che sa ricomporre la formazione (acquisizione di conoscenza), il lavoro (messa in atto di conoscenze) e la ricerca (produzione di conoscenza) nella contestualità dell’azione. Questo terzo modello delinea evidentemente il livello cognitivo della competenza, indagato principalmente attraverso metodi reputazionali e strumenti di indagine come le interviste e i questionari di autovalutazione di valutazioni tra pari come il portfolio o le rubriche.

Considerando “la natura complessa e articolata” del concetto di competenza rappresentato da Paparella (2005) come un diamante e quindi le sue “tre dimensioni: soggettiva, oggettiva, intersoggettiva”, secondo la proposta di Pellerey (2002), sembra produttivo articolare un modello integrato e multireferenziale di competenza, che giustifichi possibilmente anche tre analoghe aree di valutazione.

Questa posizione comporta una articolazione diversa della rappresentazione della competenza, rispetto alle modalità con cui si interpreta la triade conoscenza/abilità/competenza, ovvero sapere/saper fare/saper essere, divulgata anche dall’Unione Europea nella Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio del 23 aprile 2008 sulla costituzione del Quadro Europeo delle Qualifiche per l’Apprendimento Permanente.

Condividiamo i Descrittori che identificano da un lato le conoscenze come risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento e quindi insieme di fatti e principi, pratiche e teorie, relative a settori di studio e/o di lavoro, e dall’altro lato, le abilità come capacità di applicare conoscenze e di usare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi e quindi sia cognitive (uso del pensiero logico, intuitivo, creativo) sia operative (abilità manuali e uso di materiali, tecniche e strumenti).

Sembra, però, una semplificazione eccessiva definire la competenza come “capacità di usare conoscenza, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale”, con responsabilità e autonomia come descrittori privilegiati. Si finisce così per ridurre il campo semantico e la funzione fondamentale delle attitudini o qualità individuali sviluppate a partire da un caratterizzante patrimonio biogenetico, con una personalizzazione operativa di efficacia nel controllare emozioni, attivare motivazioni e volizioni, orientare decisioni. Non si distinguono, inoltre, con sufficiente chiarezza quelle capacità che la ricerca scientifica, sia analizzando le prestazioni di ordine superiore dei best performers sia riconoscendo le componenti di meta-riflessione e di consapevolezza nella loro acquisizione ed esercizio, ritiene centrali: capacità strategico-gestionali (saper progettare e gestire attività tecnico-professionali in contesti di lavoro e di studio), relazionali-sociali (saper comunicare e interagire con gli altri come singoli e come gruppi, saper agire/lavorare entro comunità di pratica), contestuali-situate (saper agire/risolvere problemi in contesti complessi e imprevedibili, saper riflettere sull’organizzazione del lavoro come azione sociale co-costruita).

 

 

[1] Il testo è una sintesi tratta da : Galliani L. (2009), Web Ontology della Valutazione educativa, Lecce: Pensa Multimedia  poi ripreso in Galliani L., Valutazione delle competenze e sviluppi professionali. In E.Felisatti, C. Mazzucco (Eds) Le competenze verso il mondo del lavoro. Lecce: Pensa Multimedia, 2011.


BIBLIOGRAFIA

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Barbier J.M., Savors théoriques et savoirs d’action, PUF, Paris 1996.
Bertagna G., Valutare tutti e ciascuno. Una prospettiva pedagogica, La Scuola, Brescia 2004.
Boyatzis R., The competent manager: a model for effective performance, Wiley Interscience, New York 1982.
Bourdieu P., Esquisse d’une théorie de la pratique, Droz, Genève 1972.
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Camuffo A., Competenze: la gestione delle risorse umane tra conoscenza individuale e conoscenza organizzativa,  “Economia & Management”, n. 2, 1996.
Cole M., Cultural Psycology: A once and future discipline, Harvard University Press,   Cambridge 1996.
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Hatchuel A., Weil B., L’expert et le systéme, Economica, Paris 1995.
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Prahalad C.K., Hamel G., La competenza distintiva delle aziende,  “Harvard Espansione”, 49, dicembre 1990.
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Spencer L.M., Spencer S.M., (1993) Competenza nel lavoro. Modelli per performance superiore, FrancoAngeli, Milano 1995.
Vergnaud G., Le développement cognitif de l’adult, P. Carré, P. Caspar, Traité des sciences et des techniques de la formation, Dunod, Paris 1999.