L’entretien d’explicitation

a cura di Valentina Iobbi

 

La tecnica dell’entretien d’explicitation (EdE) viene elaborata da Vermersch, ricercatore presso il CNRS, nei tardi anni ’90:  è un’intervista non direttiva volta alla riflessione sulle pratiche attraverso l’analisi del vissuto di una situazione professionale.  Essa viene definita dallo stesso autore come:

un insieme di comportamenti di interazione verbale e di ascolto basati su alcune griglie di riferimento applicabili a quanto viene detto e di determinate tecniche di formulazione e di rilanci (domande, riformulazioni, silenzi) destinate a facilitare e ad accompagnare la verbalizzazione di un particolare campo dell’esperienza, in relazione a diversi obiettivi personali e istituzionali. (Vermersch, 2005, p. 17).

Il panorama entro il quale essa si situa è quello della formazione alla pratica riflessiva (Knowles, Kolb, Shon Argyris – fenomenologia della conoscenza legata alla pratica professionale) ossia quel tipo di formazione che prevede dei dispositivi strutturati ed intenzionali destinati alla sollecitazione della riflessione sulla pratica e per la pratica. Attraverso l’EdE il pratico vene aiutato a decentrarsi e ad assumere una postura interiore nella quale analizza il proprio funzionamento: questa determina la possibilità di conoscere nel dettaglio quale sia la modalità concreta con cui si realizzano delle attività e anche i processi cognitivi e comportamentali connessi. Si tratta di un approccio procedurale che studia le situazioni reali e che permette di analizzare quali siano le determinanti che condizionano gli esiti dell’azione mentre questa si svolge grazie alla conoscenza dettagliata delle modalità di esecuzione dei compiti e all’analisi delle difficoltà.

Ciò su cui si fonda l’Ede è il riconoscimento dell’azione come unica fonte affidabile da cui inferire informazioni riguardo ai ragionamenti effettivamente posti in essere, agli obiettivi realmente perseguiti, ai saperi utilizzati nella pratica. Gli obiettivi dell’Ede sono essenzialmente tre:

  • aiutare l’intervistatore ad informarsi. In questo senso l’Ede si differenzia da molti altri tipi di interventi formativi perché non si sofferma sull’analisi dello scarto rispetto al compito ideale. Si concentra invece sulla possibilità di conoscere le fasi di svolgimento del compito, dunque di descrivere il fare, attraverso la verbalizzazione per individuare dove si situano le difficoltà e gli errori: il focus è nei procedimenti e nell’analisi dell’errore,
  • aiutare il soggetto ad autoinformarsi. In molti casi accade che il soggetto in formazione possa giungere a descrivere autonomamente la difficoltà incontrata e quindi l’errore sviluppando una vera e propria presa di coscienza rispetto al proprio funzionamento cognitivo.
  • Insegnare al soggetto ad autoinformarsi. Il livello precedente viene riletto in ottica metacognitiva, ossia è possibile riflettere sulla modalità utilizzata per prendere coscienza come si svolge una certa azione, ossia si riferisce all’esplicitazione della condotta di verbalizzazione.

 

Il fulcro dell’Ede è la verbalizzazione del vissuto dell’azione che, seppure in relazione con l’appercezione e con il vissuto sensoriale in quanto entrambi dipendenti  dal vissuto epistemico, riguarda la successione logico-cronologica degli atti elementari che il soggetto pone in essere per raggiungere uno scopo. Vermersch si sofferma più volte nel suo testo a descrivere la differenza fra descrizione e concettualizzazione che riprende a sua volta da quella piagetiana fra rispecchiamento e riflessione. L’esplicitazione tende a porre domande sulla base del rispecchiamento, il cui piano è quello del referente, e non sulla riflessione, il cui piano è quello della mappa mentale elaborata in fase di rispecchiamento. Questo, come si vedrà più avanti, è il discrimine maggiore fra l’intervista critica piagetiana, interessata alla produzione di astrazione e alle invarianti e leggi che giustificano l’azione prodotta grazie a domande che esplorano direttamente le cause, e l’Ede che si propone ad esplorare il livello precedente.

È dunque l’esecuzione dell’azione reale e l’aspetto procedurale dell’azione vissuta ad essere costantemente al centro dell’intervista di esplicitazione: si tratta delle azioni concrete messe in atto dal soggetto. È solamente l’analisi dell’azione reale che può rendere conto degli obiettivi effettivi di questa, obiettivi che possono essere non coscienti e che sono immanenti all’azione.

La posizione di parola incarnata

La posizione di parola è la relazione cognitiva che il soggetto intrattiene con l’argomento di cui parla. In questo senso Vermersch definisce il vissuto non solo come ambito di parola relativo all’azione, ma anche come vissuto dell’azione, relativo al preciso istante in cui essa si vive. La verbalizzazione dell’azione è necessariamente a posteriori ma vi sono diversi modi di relazionarsi al vissuto durante la verbalizzazione. In una prima posizione di parola, definita formale, il soggetto che verbalizza non entra in contatto con la situazione di cui parla ed è distante dal referente: il suo discorso è generale e poco coinvolgente. Nella posizione di parola incarnata, invece, il soggetto sembra rivivere attraverso il suo pensiero, il vissuto della situazione che racconta: il suo discorso riguarda una situazione specifica da cui emergono i caratteri concreti, comprese le dimensioni sensoriali ed affettive.

Vermersch evidenzia più volte come non sia possibile procedere con l’EdE nel momento in cui manchi una dimensione relazionale adeguata fra gli interlocutori. La relazione che si crea durante l’intervista è necessariamente di tipo asimmetrico, dal momento che il ruolo di uno è quello di intervistare, canalizzare e guidare l’altro. In coerenza con la prospettiva della pragmatica di Grice, Sperber e Wilson (1986), secondo la quale ogni dialogo si basa su presupposti condivisi, è necessaria che sia chiara l’intenzione di comunicare da parte di ogni interlocutore. Secondo il principio di pertinenza, che rimanda a dei presupposti condivisi dagli interlocutori, ogni interazione poggia su una base implicita di conoscenze, di credenze e valori condivisi e non sempre è detto che questa esista di per sé. Nasce dunque la necessità di un vero e proprio contratto comunicativo che fondi il dialogo e decreti la possibilità dell’intervistatore di guidare l’intervistato in un viaggio nella sua intimità psichica, facendo emergere il suo pensiero privato. La formulazione di questo contratto può essere spesso colloquiale, ossia introdotta da frasi del tipo “è d’accordo se…” oppure “Le propongo, se è d’accordo, di riprendere più dettagliatamente questo punto…”: il carattere incidentale di questa affermazione fa si che non venga accolta come richiesta ufficiale, ma permette allo stesso tempo di monitorare l’assenso dell’intervistato. Questo non è mai definitivo e scontato e deve essere rinnovato ogni volta che l’intervista propone delle difficoltà o dei passaggi in cui il coinvolgimento sia più importante.

 


 

BIBLIOGRAFIA E APPROFONDIMENTI

Vermersch, P., Descrivere il lavoro, Carocci Faber, 2005.

 

Direttamente dall’autore:
http://www.youtube.com/watch?v=6of0WwKx73I
http://www.youtube.com/watch?v=ISQKNR7lJgI
http://www.youtube.com/watch?v=0m3P55_4xII