Raccontare l’educare

a cura di M.B. Gambacorti-Passerini

 

A una prima lettura, l’espressione “raccontare l’educare” potrebbe non destare l’attenzione del lettore, in quanto accosta due termini (“raccontare” e “educare”) molto presenti e conosciuti per chi, oggi, si occupa di educazione. Attivando, invece, una riflessione più approfondita, è bene accorgersi che per poter pensare di “raccontare l’educare” è necessario aver chiaro il quadro teorico ed epistemologico al cui interno l’espressione si è costruita. Che azioni sono quelle del raccontare e del narrare? Che legame vi è tra la narrazione e l’educazione?

Narrare è un’azione specifica dell’uomo, resa possibile da una particolare modalità di funzionamento del nostro pensiero: noi «pensiamo per storie» (Demetrio, 2012, p. 29) proprio per il bisogno di attribuire significato al mondo umano e alla nostra vita (Smorti, 2007). In questo senso, sin dalle origini, la narrazione è stata una modalità di costruzione del pensiero e del sapere umano: si pensi ai miti, racconti costruiti con l’intento di spiegare fenomeni naturali e della vita umana. Queste narrazioni, oltre a creare e tramandare un sapere, permettevano l’educazione e la comprensione di determinati modelli culturali. Alle origini della cultura Occidentale, nella filosofia antica la narrazione e il pensiero logico erano considerati entrambi strumenti per costruire la conoscenza. Il ricorso al linguaggio del mito era molto usato da Socrate per perseguire la riflessione etica: nella prospettiva di Socrate, portata avanti anche dall’allievo Platone e poi in parte da Aristotele (nella Poetica), sia la modalità del ragionamento logico, sia quella del racconto mitico e narrativo contribuivano alla conoscenza e all’educazione.

La direzione intrapresa nei secoli successivi dalla cultura Occidentale si è orientata verso un utilizzo di metodi sperimentali (quelli introdotti da Galileo e Cartesio), che prevedevano un solo tipo di pensiero, quello logico, nella produzione di conoscenza. La narrazione, non rientrando in questa modalità di pensiero, per molti secoli è rimasta ai margini di ciò che era considerato scienza e conoscenza: l’azione del “raccontare”, pur rimanendo un’attività fondamentale per la costruzione di senso e significato, è stata associata ad attività ritenute di scarsa importanza conoscitiva (basti pensare all’espressione “non raccontare storie”, usata per invitare il proprio interlocutore a parlare di argomenti più fondati). In seguito ai mutamenti epistemologici della seconda metà del Novecento, una rinnovata attenzione per la dimensione del narrare ha segnato un passo importante nella riflessione sulle scienze umane, rendendo possibile l’apertura di una feconda linea di sviluppo all’interno del loro dibattito (Tarozzi, 2001, p. 191). In questo senso, la modalità narrativa del conoscere si offre come “paradigmatica” per quelle scienze che si occupano di fatti ed esperienze umane il cui senso è raggiungibile appunto attraverso la narrazione. A tale riguardo è stato fondamentale il contributo di Jerome Bruner, psicologo statunitense che molto ha scritto circa la narrazione: «La nostra capacità di tradurre l’esperienza in termini narrativi non è solo un gioco infantile, quanto piuttosto uno strumento di creazione di significato che domina gran parte della vita nell’ambito di una cultura» (Bruner, 1992, p. 97). Senza escludere né tantomeno demonizzare il modo di procedere delle scienze naturali, il contributo di Bruner ha cercato invece di evidenziare come la modalità del lògos, del ragionamento logico, e quella del mythos, del racconto mitico e narrativo, armonicamente presenti nella concezione del sapere di Socrate e Platone, risiedano entrambe nella costruzione del sapere. Questa impostazione ha consentito alla narrazione di essere legittimamente considerata nella costruzione del sapere, per fare luce sulla individuazione di significati nel corso dell’esistenza.

Una rinnovata considerazione scientifica per la narrazione ha significato, per la pedagogia, la possibilità di tornare a evidenziare l’indissolubile legame che sussiste tra educare e narrare: «Si può narrare per educare, così come si educa per tramandare narrazioni: in ogni caso, sempre ci troviamo coinvolti nell’una o nell’altra esperienza (o in entrambe allo stesso tempo) per rispondere alle attitudini istintive, ai bisogni e ai desideri umani di comunicazione, condivisione, conoscenza» (Demetrio, 2012, p. 23).

Si narra, dunque, per educare: si sono già ricordati i miti, narrazioni per eccellenza per formare a una cultura, ma verso finalità simili si dirigono anche le fiabe, che anche oggi narriamo ai bambini, proprio per introdurli a una certa visione del mondo, utilizzando la forma narrativa che, come già ricordato, è una modalità congeniale al pensiero umano per attribuire senso. Si narra per educare non solo in contesti infantili, ma ogniqualvolta si assegni a un narratore uno scopo pedagogico, creando storie e narrazioni attraverso diversi strumenti (la parola, la scrittura, l’immagine, le potenzialità offerte dalla tecnologia…): «Se proviamo a ripercorrere con la mente gli episodi della nostra infanzia e giovinezza, alla ricerca dei momenti o delle situazioni in cui qualcuno ci ha insegnato e in cui qualcuno (o qualcosa) ci ha educato, ritroveremo prevalentemente – ma non solo – parole, racconti, gesti: le lezioni del nostro maestro, i racconti di un buon libro, l’esempio dei genitori» (Biffi, 2012, p. 76).

Le molteplici narrazioni che attraversano la vita di ognuno di noi contribuiscono alla costruzione della nostra formazione. Raccontare, dunque, educa e permette la costruzione di una storia educativa, che a sua volta può essere narrata, mostrando un altro aspetto del legame tra narrazione ed educazione: non solo si racconta per educare, ma la stessa educazione può e deve essere raccontata.

Il lavoro educativo è un lavoro che ha a che fare con le storie (Biffi, 2010), rivolgendo l’attenzione a creare in esse un cambiamento, una crescita. Non solo: nell’incontro con la storia dell’altro, l’educatore inizia a tessere la trama di un’altra storia, quella dell’azione educativa che si costruirà con il/i soggetto/i a lui affidato/i. Il professionista dell’educazione, dunque, è chiamato a riconoscere non solo la potenzialità educativa della narrazione, ma il fatto che le sue azioni educative andranno a costruire una trama che coinvolge storie già esistenti, quelle dei soggetti con cui si troverà ad avere a che fare e la sua stessa storia: «L’intervento educativo è, dunque, rete di molte storie: quella dell’educando, quella dell’intervento stesso, ma anche la storia dell’educatore» (Biffi, 2012, p. 80).

La capacità di riconoscere le storie, vederle e saperle raccontare è competenza fondamentale dei professionisti educativi: proprio attraverso la narrazione, l’educazione, azione intangibile e, dunque, spesso “invisibile” e difficilmente descrivibile[1], può essere “mostrata”, resa visibile e, quindi, conoscibile anche a soggetti esterni (Biffi, 2014).

Ecco quindi che è possibile mostrare un ultimo aspetto dell’espressione “raccontare l’educare”: oltre a sapersi riconoscere «educatori di storie» (Biffi, 2010), i professionisti dell’educazione sono chiamati a raccontare la loro pratica e il loro agire, proprio per dare legittimità e visibilità alla loro azione. Un bravo narratore è quello che sa rendere appassionante e avvincente il proprio racconto: per narrare l’educare, dunque, il professionista dell’educazione deve, a sua volta, essere formato al pensiero narrativo. Innanzitutto le storie vanno riconosciute e viste per poter essere raccontate: la storia dell’agire educativo, infatti, non riguarda solo le storie dei soggetti con cui l’educatore lavora, e nemmeno soltanto la storia dell’educatore nel suo incontro con gli educandi. La trama dell’educazione è quella che si tesse nell’incontro tra l’educatore e l’educando, dando vita a una nuova storia, che riguarda il percorso che verrà vissuto insieme.

Per raccontare l’educazione, quindi, sarà necessario pensarla come una storia, in continua costruzione ed evoluzione. Narrarla, oltre a renderla visibile e conoscibile, renderà possibile agire riflessione e significazione su essa.

L’educazione narrata, in questo modo, consentirà all’educatore di “guadagnare” un agire riflessivo e significante, capace di tessere in trama la sua azione professionale, in modo che «la narrazione sul processo diventi una creazione del processo stesso, rivelandone i significati nascosti e le volontà in esso celate» (Biffi, 2010, p. 66).

 

 

[1]La letteratura relativa a tale argomento è estremamente ricca, rendendo impossibile richiamarla totalmente in nota. Si segnalano per una consultazione sul tema Bertolini, P. (1999). Lesistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Firenze: La Nuova Italia; Massa, R. (1992). Istituzioni di pedagogia e scienza delleducazione, Roma: Laterza; Tramma, S. (2008). L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo. Carocci: Roma.

 


 

BIBLIOGRAFIA

Bertolini, P. (1999). L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata. Firenze: La Nuova Italia.
Biffi, E. (2010). Educatori di storie. L’intervento educativo fra narrazione, storia di vita e autobiografia, Milano: Franco Angeli.
Biffi, E. (2012). Educare le storie, educare con le storie. In Demetrio, D. Educare è narrare. Le teorie, le pratiche, la cura. Milano: Mimesis.
Biffi, E. (2014). Le scritture professionali del lavoro educativo. Milano: Franco Angeli.
Bruner, J. (1992). La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Torino: Bollati Boringhieri.
Demetrio, D. (2012). Educare è narrare. Le teorie, le pratiche, la cura, Milano: Mimesis.
Massa, R. (1992). Istituzioni di pedagogia e scienza dell’educazione. Roma: Laterza.
Smorti, A. (2007). Narrazioni. Cultura, memorie, formazione del sé, Firenze: Giunti.
Tarozzi, M. (2001). Pedagogia generale. Storie, idee, protagonisti, Milano: Guerini Studio.
Tramma, S. (2008). L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo. Roma: Carocci.

 


Autrice

M. Benedetta Gambacorti-Passerini, PhD, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Biomediche per la salute dell’Università di Milano. Ha condotto le sue ricerche sui temi della narrazione come strumento formativo per gli operatori sanitari, sull’incontro tra sapere medico e pedagogico nella pratica professionale, attraverso un approccio di ricerca qualitativo.