A cura di Vincenzo Bonazza
Nelle università italiane è ancora da costruire una rete di centri di ricerca capaci di offrire un valido contributo allo sviluppo di una cultura didattica: l’impegno intermittente della pedagogia accademica nel rispondere alle situazioni educative concrete aggrava la situazione. La ricerca empirico-sperimentale, si vuol dire, continua ad essere relegata ai margini (non è infrequente l’imbarazzo che si prova nel confronto tra i contributi offerti dalla ricerca internazionale e ciò che si produce nel nostro paese, ove tra l’altro le cattedre universitarie ad impostazione empirico-sperimentale risultano minoritarie) nonostante il sistema scolastico reclami, con forza, la necessità di riferimenti precisi e di un’acquisizione sistematica di competenze – ciò di cui hanno bisogno à i professionisti di qualsiasi altro settore – per la gestione efficace delle pratiche quotidiane. Nel nostro paese, il ritardo, che non esitiamo a definire “storico”, della ricerca educativa ad impostazione empirica, non ha permesso agli insegnanti di fruire di riferimenti obiettivi: non si vuol negare – è evidente – l’impegno profuso dalla maggior parte degli studiosi del settore, bensì sottolineare l’insufficienza storica dei repertori conoscitivi messi a disposizione della scuola da parte dell’università. Una delle impressioni che sovente si prova, di fronte ad una parte della folta letteratura degli ultimi lustri, è che il dibattito in essa presente si sia concentrato eccessivamente sullo ‘statuto teorico’ della didattica, al fine di condurla alla maturità epistemologica, tralasciando, tuttavia, la ricerca empirica che la deve necessariamente sostenere. Ci interessa evidenziare che questa insufficienza s’è riverberata sul fare scuola quotidiano, lasciando gli insegnanti privi di un sapere specialistico di riferimento necessario a decidere linee di azione congruenti1. Tale situazione ha contribuito a svilire il lavoro dell’insegnante, rendendolo prigioniero di una prassi abitudinaria: succede non di rado, nell’operatività, che i docenti intercettino un problema, siano nelle condizioni di identificarlo con precisione, ma non abbiano a disposizione elementi sufficienti per andare oltre, per intraprendere cioè un itinerario produttivo dal punto di vista didattico.
Al riguardo occorre, seppure en passant, fermarsi a riflettere sul concetto di evidenza in ambito educativo; si inizia a parlare di EBE (evidence based education) nel Regno Unito intorno alla metà degli anni Novanta del Novecento sotto la spinta di un filone di ricerca presente nell’ambito medico: l’evidence based medicine. Sempre a metà degli anni Novanta vengono pubblicati due importanti rapporti sullo stato di salute della ricerca educativa, uno commissionato dal Department for Education and Employment e l’altro dall’Office of Standars in Education: in essi è presente una serrata critica alla ricerca educativa ed in modo particolare si fa riferimento alla inadeguatezza di tale ricerca nei confronti delle istanze dei decisori politici. L’acerrimo j’accuse proferito da David H. Hargreaves del 1996 nel Regno Unito presso la Teaching Training Agency2 ha più di recente sottolineato, tra l’altro, il bisogno di ripensare il modo di fare ricerca al fine di offrire un ausilio reale a tutti coloro che si occupano di educazione. Parallelamente negli Stati Uniti, nel decennio precedente, si arroventava il dibattito sulla qualità dell’istruzione a partire dall’ormai celebre ‘relazione Gardner’3, dibattito che raggiungeva il suo apice con il No Child Left Behind Act del 2002 col quale si decideva di destinare fondi pubblici solo alle ricerche basate su prove evidenti4. In effetti, in ragione di bisogni sempre nuovi che interpellano l’istruzione (inclusione, comparazioni internazionali, autonomia, rendicontazione ecc.), diventa sempre più ostico investire risorse economiche senza ottenere risultati evidenti.
Per approfondire, oltre allo spaccato storico, il variegato dibattito sull’evidence based education rimandiamo il lettore ad altre sedi5; a noi invece, preme soffermarci sulle principali peculiarità di tale approccio, e quindi entrare nello specifico dei rilievi che esso ha mosso alla ricerca educativa:
– incapacità di stabilire oggetti di ricerca prioritari, quindi sovrapposizione disordinata dei campi d’indagine;
– riscontro, in taluni casi, di una contaminazione ideologica della ricerca sovente caratterizzata da autoreferenzialità;
– la metodologia, sovente, risulta qualitativamente insufficiente, in modo particolare nelle procedure empiriche;
– notevole distanza tra il mondo della ricerca e la quotidianità scolastica.
Partendo principalmente da queste critiche, l’evidence based education ha inteso diffondere una cultura dell’evidenza anche nell’educativo. E’ maturata la convinzione che – senza prescindere, ovviamente, dai margini di approssimazione dovuti alle peculiarità dei problemi affrontati ed alle differenze contestuali – uno stato dell’arte al quale ogni professionista possa riferirsi risulti sempre più necessario; c’è bisogno che anche il nostro settore possieda basi conoscitive comuni ed attendibili al fine di essere spendibile nell’agire educativo con efficacia. Nella quotidianità didattica – è noto – risulta alquanto difficile motivare, con argomentazioni solide, la scelta di un formato didattico piuttosto che di un altro. Come dicevamo più sopra, nel dibattito sull’EBE è emerso più volte il confronto con la medicina: il processo decisionale in medicina, analogamente a quanto dovrebbe avvenire in ambito educativo, necessita di forme sedimentate di professionalità al fine di poter deliberare sui bisogni dei quali il soggetto coinvolto è portatore. “Insegnanti e medici – rileva Antonio Calvani – sono ugualmente interessati al quesito ‘Che cosa funziona meglio in queste circostanze?’ [il corsivo è nostro] ed entrambi affrontano situazioni con ampi gradi di incertezza. La differenza è piuttosto nell’atteggiamento mentale e nel background opportunamente capitalizzato: i medici esigono con maggior forza richiami alle evidenze e riescono a esplicitare meglio le argomentazioni a sostegno delle loro scelte, cosa che invece non accade in educazione”6.
La metodologia di ricerca considerata più efficace è l’esperimento, questo non significa che anche altre metodologie di tipo quantitativo e qualitativo (nell’ambito dell’EBE, al riguardo, vi sono posizioni diverse) non siano considerate valide ed attendibili: ciò che importa è la rigorosità (e quindi la trasparenza) delle procedure.
John Hattie, uno degli studiosi più noti di tale movimento, ha impostato un lavoro finalizzato a definire lo stato dell’arte delle metodologie e delle azioni didattiche efficaci: utilizzando una scala di Effect Size (ES) ha raccolto in sintesi i dati ottenuti da oltre ottocento meta-analisi con l’intento di mettere in rilievo quali siano le variabili che meglio incidano sui risultati scolastici degli studenti7. Ebbene è emerso con chiarezza che una tipologia di insegnamento/apprendimento esplicito, ‘visibile’, il cosiddetto visible teaching-learning, arricchito di feedback bidirezionali (insegnante → allievo e viceversa) e dall’utilizzo della valutazione formativa ottenga risultati rilevanti sul piano dell’apprendimento (quest’ultima, in particolare, ottiene dati eccellenti). Altro aspetto significativo riguarda l’importanza di predisporre obiettivi chiari, precisi e soprattutto condivisi con gli allievi: tali approcci8 – ottengono ES elevati.
Non aggiungiamo altro: ci interessava mettere in rilievo come l’EBE abbia svolto e stia svolgendo un ruolo di stimolo essenziale nei confronti della ricerca educativa: in modo particolare ha richiamato l’attenzione nei confronti di una stringente necessità ossia il rapporto virtuoso, non più rimandabile, tra ricerca e pratica didattica quotidiana.
1 Cfr. B. Vertecchi, Parole per la scuola, Franco Angeli, Milano 2012.
2 D. H. Hargreaves, Teaching as a research-based profession: possibilities and prospects, The Teacher Training Agency. Annual Lecture, London 1996.
3 “Negli anni Ottanta del Novecento in molti paesi industrializzati ci si è posti il problema di capire cosa avviene nella scuola: negli Stati Uniti, nel 1983, al tempo della presidenza di Ronald Reagan, fu resa pubblica l’ormai celebre ‘relazione Gardner’ della National Commission on Excellence in Education, A Nation at Risk: the Imperative for Educational Reform, commissionata un paio d’anni prima dal Segretario di Stato per l’Istruzione Terrel H. Bell. Essa, denunciando il fallimento dell’istruzione pubblica (elementare e secondaria), si è posta come la ‘pietra miliare’ all’avvio del dibattito intorno alla qualità del prodotto scolastico” (V. Bonazza, La dimensione assiologica: equità, rendicontazione, miglioramento, in L. Galliani, A. M. Notti a cura di, Valutazione educativa, PensaMultimedia, Lecce-Brescia 2014, p. 238).
4 “Per decenni nel campo della ricerca educativa – ha sottolineato Norberto Bottani – ha prevalso una grande ambiguità, con la rivendicazione del diritto della ricerca alla piena autonomia e del diritto-dovere della ricerca a operare sul terreno per cambiare la realtà. Questo statuto ambiguo è stato contestato e denunciato da più parti, in particolare da molti responsabili politici di diverse tendenze. Per uscire da questo vicolo cieco occorrevano nuove metodologie di ricerca. L’occasione per uscire dal vicolo cieco nel quale si era infilata gran parte della ricerca pedagogica fu data dalla richiesta espressa dalle cerchie politiche e in particolare dagli ambienti neo-conservatori di produrre prove evidenti della validità delle sperimentazioni pedagogiche. Solo a questa condizione i finanziatori ed i responsabili politici avrebbero accettato di entrare in materia e di promuovere le riforme e i cambiamenti propugnati dai pedagogisti e dai ricercatori” (Il difficile rapporto tra politica e ricerca scientifica sui sistemi scolastici, Programma Education FGA, Working Paper, n.17, 2, 2009, p. 10).
5 M. Ranieri, Evidence Based Education: un dibattito in corso, “Journal of e-Learning and Knowledge Society”, 3, 2007; G. Vivanet, Evidence Based Education: un quadro storico Form@re. Open Journal per la formazione in rete, 2, 2013; G. Vivanet, Che cos’è l’Evidence Based Education, Carocci, Roma 2014.
6 Per un’istruzione evidence based. Analisi teorico-metodologica internazionale sulle didattiche efficaci e inclusive, Erickson, Trento 2012, p. 17.
7 J. Hattie, Visible learning: A syntesis of over 800 meta-analysis relating to achievement, Routledge, London and New York 2009: questa ricerca è citata e commentata da tutti gli studiosi riportati nelle note in questione.
8 Argomentando sulle metodologie didattiche ritenute efficaci dall’evidence based education Calvani sottolinea quanto sia “significativo che a distanza di oltre cinquant’anni le risultanze scientifiche raccolte da Hattie confermino in pieno [il corsivo è nostro] sia il ruolo delle aspettative dell’insegnante sia l’efficacia di approcci adeguatamente mirati verso obiettivi ben definiti e accompagnati da feedback in itinere” (p. 33). E poi ancora: “Puntare su obiettivi chiari, condivisi con l’allievo (…) è un punto di forza, un presupposto per l’efficacia: tutti gli approcci che si caratterizzano prioritariamente in tal senso (ad es. il mastery learning) conseguono un ES = 0,6” (Come fare una lezione efficace, Carocci, Roma 2014, p. 44).
Autore
Vincenzo Bonazza insegna Docimologia e Progettazione e valutazione dei processi formativi presso la Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università Telematica Pegaso (Napoli).