di Viviana Vinci
Il rapporto fra mente-cervello-corpo costituisce da sempre un tema centrale per la ricerca, in particolare in ambito neuroscientifico, ritenuto quasi un substrato di base per ogni ambito bio-antropologico. L’“imperialismo” delle neuroscienze, utilizzando un’espressione di Cambi (2011), ha infatti precise ragioni, che risiedono nel bisogno di unificare la spiegazione dell’umano riconducendolo ad una base comune e legandolo a modelli sperimentali e verificabili capaci di leggerne (senza ridurne) la complessità, la specificità, il pluralismo. Alla base vi è l’idea di un essere umano riconosciuto come unità bio-psico-socio-spirituale, in cui l’indissolubilità fra corpo e pensiero gli conferisce carattere di irripetibilità.
Gli input provenienti dalle ricerche nel campo delle neuroscienze cognitive alla teorizzazione didattica e alla comprensione dei problemi insiti nei processi di insegnamento-apprendimento, in particolare, sono notevoli.
Secondo Rivoltella (2012), non si tratta di utilizzare le neuroscienze per dare alle cosiddette “scienze soft” – come la pedagogia o la didattica – un volto più rispettabile, dando dignità scientifica ad affermazioni che diversamente non ne avrebbero, e nemmeno di attribuire alle neuroscienze una funzione salvifica rispetto ai problemi della scuola o, ancora, di credere nelle cosiddette “neuromitologie” consolidate nel nostro contesto culturale, ossia mitologie sulle neuroscienze diventate credenze diffuse nell’opinione comune (come, ad esempio, il ritenere che le giovani generazioni – i “nativi digitali” – siano definibili quasi come una “nuova specie” oggetto di una mutazione genetica, di una trasformazione cerebrale tale da renderli in possesso di un nuovo tipo di intelligenza “digitale”). Si tratta, piuttosto, di sostenere il carattere plurale e complesso della didattica, considerata nel suo ancoraggio ai molteplici livelli della formazione, che includono dimensioni intellettive, corporee, affettive e relazionali della persona (Sibilio, 2012): si delinea sempre più un profilo transdisciplinare della ricerca didattica, il cui approccio è multidisciplinare, integrato e disponibile a confrontarsi con modelli derivanti da altri saperi scientifici.
In Italia questo approccio plurale è stato sostenuto dal paradigma bio-educativo della ricerca didattica (Frauenfelder, Rivoltella, Rossi, Sibilio 2013; Frauenfelder, Santoianni, 2002; Frauenfelder, Santoianni, Striano, 2004; Frauenfelder 2001; Sibilio, 2012, in Rossi, Rivoltella; Gay, Hembrooke, 2004) fondato sul riconoscimento del nesso fra biologia, pedagogia, didattica e sulla centralità della relazione fra mente, corpo, ambiente, artefatti e processi di conoscenza. L’approccio bioeducativo, fondato sul rapporto costitutivo tra pedagogia-neuroscienze-scienze cognitive, studia “le condizioni di possibilità dei processi di apprendimento umano in una prospettiva evolutiva e di sviluppo che coniuga chiavi di lettura epigenetiche e filogenetiche sulla base della plasticità della struttura neurofisiologica della specie umana (Orefice, Sarracino, p. 9). Le scienze bioeducative, intese come sapere “di frontiera” (Fraunfelder, Santoianni 2002), leggono la formazione come processo evolutivo e interrogano la biologia in relazione ai processi di evoluzione e sviluppo che si determinano a livello filogenetico ed ontogenetico.
La centralità della funzione didattica del corpo e della corporeità (Sibilio, 2011) nella ricerca educativa deriva dal riconoscimento di un duplice significato attribuibile alla relazione tra corpo e cognizione in ambito formativo, ossia “la fruibilità didattica della corporeità e le proprietà del corpo in movimento per produrre modalità di significazione alternative, complementari o vicarianti” (Sibilio, 2012, p. 332). Le “corporeità didattiche”, secondo Sibilio, esprimono attraverso modalità non verbali, intenzionalità consapevoli e inconsapevoli in grado di fronteggiare la complessità nei processi di insegnamento-apprendimento.
Si tratta di linee di indagine post-costruttiviste (Lesh, Doerr, 2003; Rivoltella, Rossi, 2012), centrate sull’embodied cognition (Morin, 1989; Varela et al., 1992; Lakoff and Johnson, 1999; Sibilio 2011), su un processo continuo di connessione fra corpo-azione-conoscenza, ampliato ancor più grazie alle tecnologie, ai giochi e alla simulazione; questa prospettiva si è aperta, infatti, anche alla riflessione sulle “funzionalità corporee”, cioè sulle estensioni tecnologiche e sulle potenziali proiezioni del corpo come protesi dotate di specifiche proprietà corporee. In tale visione, viene superata la schematizzazione funzionalista percezione-cognizione-azione e tutti gli orientamenti tradizionalmente diffusi in ambito didattico – tra cui, ad esempio, quello cognitivista in cui il modello della conoscenza veniva considerata come acquisizione-elaborazione delle informazioni, il modello didattico e di apprendimento sequenziale-curricolare e quello tecnologico (Calvani 1998) – e si sviluppa un’idea di cognizione come attività radicata profondamente nel sistema senso-motorio. La cultura è “incorporata” e si tramanda naturalmente attraverso linguaggi, azioni, processi mediati attraverso il corpo: «l’agire, traducendosi in atteggiamenti, in comportamenti e in condotte, rappresenta una sintesi tra parola, gesto, modalità di incedere, mimica del volto e del corpo; si tratta di elementi che costituiscono l’identità culturale del soggetto, la rappresentazione del suo stile, dei suoi valori, delle sue regole, dei suoi principi e delle sue priorità» (Sibilio, 2016, p. 110).
Valorizzando la fruizione consapevole delle potenzialità di azione del corpo e la conoscenza come processo attivo, soggettivo e radicato nella corporeità, tale prospettiva neurofenomenologica ha offerto importanti spunti, per un verso, alla riflessione sull’utilizzo degli ambienti tecnologici per allargare l’esperienza conoscitiva o delle tecnologie educative per realizzare un “corpo aumentato”, un’interfaccia percettiva capace di aumentare le possibilità d’azione come nel caso delle Natural User Interface (Aiello, Di Tore, Di Tore, Sibilio 2013, p. 27); per altro verso, allo studio su dispositivi e strumenti compensativi di abilità deficitarie, come nel caso dell’utilizzo di software o videogames per favorire lo sviluppo della competenza di lettura in soggetti dislessici (Sibilio, Di Tore 2014; Di Tore, Fulgione, Sibilio 2014).
Anche le teorie dell’azione e l’enattivismo (Varela, Thompson, Rosh 1991; Maturana, Varela 1992; Davis et al. 2000; Doidge 2007; Proulx 2008; Rossi, 2011) considerano i processi di apprendimento come trasformazioni sistemiche che modellano e strutturano il nostro mondo. La cognizione non è l’effetto, il risultato di un’azione deterministica, ma viene intesa come un processo complesso che co-evolve grazie alle interazioni del sistema, una “azione incarnata”. Fra azione e conoscenza vi è, infatti, una stretta relazione: «L’azione è anche conoscenza in quanto la conoscenza si reifica nel sistema, co-evolve con il sistema, diviene modo di essere del sistema, è rappresentata dalla trasformazione dello stesso. La conoscenza non è un contenuto, un’informazione collocata in qualche angolo del cervello, ma è uno stato della persona, frutto di quella trasformazione che coinvolge mente e corpo durante l’azione» (Rossi, 2011, p. 26). La scuola viene definita come eterotopia in cui si concretizza l’azione didattica, uno “spazio-tempo in cui lo studente sperimenta pratiche di libertà” (Rossi, 2011, p. 13), un contesto protetto in cui si può sperimentare liberamente. In tale contesto – e, più specificamente, nel contesto classe – vi è un accoppiamento strutturale tra docenti e studenti che fa co-evolvere e modificare non solo i reciproci saperi, ma anche le loro strutture interne, le loro organizzazioni globali (cfr. p. 33).
Il riconoscimento pieno della centralità del corpo nella cognizione, considerata come un processo complesso e proteiforme che si modifica insieme alle interazioni del sistema e dell’azione, rappresenta l’esito di un confronto positivo fra istanze tradizionali e teorizzazioni innovative, fra acquisizioni didattico-psico-pedagogiche di fine Novecento e riflessioni neurofenomenologiche attuali sul MindBody problem e il BodyBody problem, con l’intento di ridurre la distinzione tra fisico e mentale (Thompson, 2005; Sibilio, 2012, p. 330; Young, 1996; Kim, 2010).
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