a cura di Cristina Palmieri
Thomas S. Kuhn (Cincinnati, 1922 – Cambridge, 1996) è noto come uno dei maggiori storici della scienza del secolo scorso.
La sua opera principale, The Structure of Scientific Revolution, pubblicata nel 1963 negli Stati Uniti, suscitò un grande dibattito in ambito scientifico ed epistemologico. Oggi, è interessante ricordarne gli snodi principali in quanto hanno profondamente segnato il modo di concepire il processo della conoscenza scientifica, anche nell’ambito delle cosiddette “scienze umane”.
L’oggetto di ricerca di Kuhn è appunto il processo di conoscenza scientifica: come evolve la scienza? Come cambiano le teorie scientifiche? Come accade che in epoche storiche differenti prevalgano modi di conoscere e teorie scientifiche differenti? Kuhn non cerca risposte nella struttura formale delle teorie scientifiche in sé e per sé considerate, ma nella loro storia. È dunque il processo storico, strettamente intrecciato alle dimensioni sociali, economiche, materiali, culturali che influenzano una comunità scientifica, a offrire gli elementi di comprensione rispetto all’avvicendamento delle teorie scientifiche.
In primo luogo, Kuhn individua nel paradigma il costrutto concettuale che può rendere conto del profondo intreccio delle teorie scientifiche con il contesto storico-sociale in cui emergono. Un paradigma è l’insieme di “conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca” (Kuhn, 1962, p. 10). Un paradigma dà quindi origine a “particolari tradizioni di ricerca scientifica con una loro coerenza” (ivi, p. 10): è più di una teoria o di un insieme di teorie e non è riducibile a una “semplice” visione del mondo. Un paradigma, gestaltianamente, orienta un modo di vedere la realtà e le relazioni tra le sue componenti nel momento stesso in cui fornisce metodi, tecniche e procedure per trattare e risolvere i problemi che la stessa realtà pone. In questo senso, un paradigma non è un insieme di regole rigide, ma, per affermarsi, deve essere sufficientemente nuovo da attrarre seguaci e aperto da risolvere problemi nuovi e diversi (Fusaro, 2016).
La storia testimonia come il processo di conoscenza scientifico evolva per “salti”, “rotture”, discontinuità. Secondo Kuhn, ogni scienza attraversa diverse fasi: il periodo pre-paradigmatico, in cui “si accumulano fatti in modo casuale, senza alcun riferimento a fatti o ad alcuna struttura teorica accettati” (Oldroyd, 1986, p. 419); il periodo in cui un paradigma si afferma, ovvero “un sistema teorico comincia a essere accettato da un numero sempre maggiore di persone” (ibidem); il periodo di scienza normale, in cui si consolida il paradigma e vengono eseguite ricerche in accordo con il modello da esso rappresentato – la funzione dello scienziato è quella di “risolvere rompicapi” (Kuhn, 1969, pp. 58-60) adottando lo sguardo, le regole, le procedure messe a disposizione dal paradigma -; il periodo di crisi, in cui le anomalie che il paradigma non riesce a spiegare o a risolvere vengono percepite come troppe e troppo importanti per poter essere trascurate; il periodo di scienza straordinaria, in cui si sollevano discussioni relative alle fondamenta ontologiche, epistemologiche e metodologiche del paradigma tradizionale e si allenta la sua dogmaticità.
I periodi di crisi generano dunque le condizioni perché avvenga un cambiamento di paradigma: quando un nuovo paradigma si afferma, si ha una sorta di “riorientamento gestaltico”: la comunità scientifica maneggia gli stessi dati di prima ma “ponendoli in relazioni differenti da prima” (Reale, 1983, p. 758). I paradigmi, secondo Kuhn, sono tra loro incommensurabili: lo scienziato che adotta un nuovo paradigma “è come se (…) fosse trasportato su un altro pianeta dove gli oggetti familiari sono visti in maniera diversa, oltre che messi in relazione con oggetti non familiari” (Kuhn, 1970, p. 111, traduzione di chi scrive). Cambiare paradigma “comporta una trasformazione dell’intera struttura concettuale, con la quale gli scienziati guardano il mondo” (Fusaro, 2016, p. 2). Non è questione di logica, ma è un’esperienza di conversione, non imponibile con la forza. Cambiare paradigma implica decidere la priorità dei problemi da risolvere: rinvia quindi all’ambito etico e morale, sociale, politico, oltre che alla sfera privata e personale di chi fa ricerca. Più che sulla base di dimostrazioni, si cambia paradigma perché si è persuasi delle maggiori possibilità euristiche che un nuovo paradigma promette: dei suoi vantaggi, per così dire.
In quest’ottica, dunque, è rimesso in discussione lo stesso progresso scientifico, o meglio la sua teleologia: secondo Kuhn il cambiamento dei paradigmi non è sinonimo di progresso, soprattutto nel momento in cui si intenda il progresso scientifico come una continua evoluzione verso una sempre maggiore, migliore e più potente conoscenza vista come corrispondenza alla realtà. Se la conoscenza del mondo è sempre e comunque dipendente dai paradigmi scientifici – e quindi dalle istanze storiche, economiche e sociali a essi sottese – il progresso della scienza può essere misurato solo rispetto al punto di partenza, a ciò da cui procede: “dall’allontanamento da stadi più primitivi, meno ricchi e meno complessi, di ricerca” (Fusaro, 2016, p. 3), ma non tende verso nessuno scopo. Attualmente, questo procedere coincide con l’aumento delle “specializzazioni”, che interpretano i fatti in maniera sempre più minuziosa, ma che corrono costantemente il rischio di divenire autoreferenziali (Fusaro, 2016).
Per la radicalità della sua teoria, Kuhn fu contestato, accusato di relativismo e irrazionalismo. Sensibile a tali critiche, egli stesso ritornò sulla sua opera principale scrivendone una seconda edizione (1970), in cui mitigò il concetto stesso di paradigma come concezione generale del mondo e la visione della storia della scienza come caratterizzata da grandi discontinuità (Oldroyd, 1986, p. 624), pur senza rinnegare, ma anzi continuando ad affermare con forza l’importanza, per la filosofia della scienza e per le scienze stesse, di acquisire una prospettiva storica e culturale.
L’evoluzione del suo pensiero è visibile in particolare nei saggi raccolti nel volume pubblicato postumo, Dogma contro critica (a cura di Stefano Gattei, Cortina, Milano) dove, in particolare attraverso un serrato confronto con le critiche mossegli da Feyerabend (Vienna, 1924 – Genolier, 1994), ripropone la questione della relazione tra pensiero convergente e divergente, tra “normalità” e “rivoluzione” nella scienza, e approfondisce il significato di incommensurabilità alla luce dei contributi storico-linguistici.
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